ZOFF TI ODIO! - ALBERTOSI: ‘’PERSI I MONDIALI
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IN ARGENTINA PER COLPA SUA’’ – ‘’DOVEVO ANDARE ALLA JUVE POI CI FINÌ LUI: DINO HA SEMPRE VISSUTO DI SPONDA SULLE MIE VICENDE’’ – ‘’ITALIA-GERMANIA 4-3? MEZZ'ORA COSÌ TI RESTA PER L'ETERNITÀ’’
Il calcio, i cavalli, la bella vita: il portiere sciupafemmine, Ricky Albertosi, si racconta - “Scopigno e Liedholm gli allenatori che ho amato di più. Cercavano di capire la singola personalità: non come oggi. A Balotelli vogliono imporre regole di ferro e quello fa danni comunque’’...
Cristiano Gatti per “il Giornale2 FEB 2015 16:08”
Da un bel po' di anni ormai si è rinchiuso nel suo Forte, dei Marmi. La nostra figurina di allora, il portiere artista e sciupafemmine dell'epopea seppiata di Italia-Germania 4-3, è un pensionato 75enne che si gode il salmastro e la tranquillità, beni scoperti in definitiva soltanto nell'autunno della vita. Questo Ricky Albertosi ha ancora tutte le sembianze, compreso il baffo da sparviero, che allora conquistava i tifosi e, prima di loro, le tifose. Sono più soffusi i toni della voce, più pacato l'incedere del discorso, ma il nucleo centrale del personaggio è ancora tale e quale.
A metterlo un po' quieto ci ha pensato un infarto, dieci anni fa: stava all'ippodromo di Montecatini, riguardava al video la sua corsa appena conclusa nel campionato italiano giornalisti, poi solo nero. Gli raccontarono che in attesa dell'ambulanza furono gli altri fantini a trattenerlo qua per i capelli: dopo sette, otto, nove massaggi, il cuore si decise a ripartire per un altro numero di anni.
Da quella volta, cambio radicale di vita: basta corse, basta sforzi, basta sport. «In quel momento – mi racconta bevendosi il tè delle cinque come le signore inglesi – mi è crollato il mondo. Io, abituato a non stare mai fermo, sempre in movimento, ridotto al riposo. Mi sentivo minorato. Poi si sa com'è: nella vita ci si abitua a tutto. A 75 anni, dopo tutto, ci si può mettere anche comodi ad osservare tante cose...».
Guardarsi indietro, a una certa età, è un po' come affacciarsi sulla nebbia. Però qualcosa si riesce a distinguere, fissando per bene in lontananza. Albertosi, l'icona del vero portiere, estroverso, pazzoide, spavaldo, spregiudicato, gaudente, sicuro di sé, vede sfilare un sacco di volti. È come sfogliasse uno sterminato album Panini, dove le figurine però sono foto personali, vissute dal di dentro. Parlare con lui è come fare scambio all'angolo del cortile o davanti al cancello della scuola: butto lì i nomi e ogni volta risponde ce l'ho (celo, in lingua madre). Parto da carogna: Zoff.
«Il vecchio Dino. Grazie a lui, non ho giocato il quinto Mondiale, Argentina '78. Bearzot, ero ormai quarantenne, mi chiese se ci sarei andato da terzo portiere. Mister, porto anche le valigie, gli dissi io: avrei stabilito un record indimenticabile. Ma dopo qualche giorno il ct mi chiama per dirmi che sai com'è, se vieni tu Dino non si sente sicuro, ti soffre un po'... Non gliel'ho mai perdonata. Difatti, quando ai Mondiali prese due gol da metà campo con l'Olanda, sui giornali gliene dissi di tutti i colori. Il gelo durò un po' di anni. Poi, un giorno, ci ritrovammo sulla scala di un albergo. Ci siamo abbracciati e tutto è passato. Si resta amici, dopo tutto quello che c'è stato».
Erano gli opposti, tra i pali e nella vita. Freddo e introverso, taciturno e misurato, il friulano. Sempre fuori dai pali («ho anticipato di quarant'anni i portieri d'oggi»), sempre sopra le righe, battuta pronta e scherzi a caterve, il toscano (di Pontremoli). In tutti i campi, di calcio e dell'esistenza, ci sono gli Zoff e ci sono gli Albertosi. «Lui era maniacale, doveva allenarsi tutti i giorni, mai una distrazione. Io potevo anche saltare gli allenamenti, ma la domenica ero prontissimo.
Lui mai una parola fuori posto, non uno scherzo. Io non mi sono mai fatto mancare niente. Così ho inteso il mio ruolo e in fondo tutto il mio vivere. Perché credo che questo dono vada goduto fino all'ultimo sorso, bello com'è. Sono felice di ciò che ho assaporato. Non solo calcio: ho avuto ristoranti, un albergo, una piccola scuderia di cavalli. Non ho rimpianti, dico solo grazie. Anche la popolarità, come no: odio quelli che oggi dicono i tifosi stressano, non mi lasciano vivere. Se li godessero, finché possono: quando finiscono la carriera, queste star, se ne accorgono. Io per fortuna ancora oggi incontro gente che vuole fare la foto con me, tifosi che mi chiedono dall'estero un autografo via posta: mi fanno contento, non faccio l'ipocrita».
Vado avanti con il mazzetto delle sue figu. Gli chiedo degli inizi, mi risponde che suo padre faceva il maestro e lo voleva avviato alla stessa carriera, ma siccome questo padre giocava pure nella Pontremolese e si portava dietro il piccolo agli allenamenti, finì nel modo più inevitabile: tra un tempo e l'altro delle partite, senior metteva in porta junior e lo intratteneva con dei tiri, il piccolo però parava già da dio, tanto che per farla breve a 13 anni diventò titolare, complice la partenza su una nave del portiere vero, marinaio a La Spezia.
Da lì in poi, carrierone e addio magistrali, abbandonate al terzo anno. Prima lo Spezia, poi la Fiorentina, poi tutto il resto... Dico Cagliari, tira fuori Scopigno e Riva: «Scopigno, assieme a Liedholm quando andai al Milan, è l'allenatore che più ho amato. Erano uomini che prima di tutto cercavano di capire la singola personalità. Quelli che in qualunque settore impongono regole e parole uguali per tutti, sinceramente, non li capisco: non siamo tutti uguali, al mondo. Prendi Balotelli: hanno voglia a imporre regole di ferro, quello fa danni ovunque e comunque...».
Dico Riva: altro che se ce l'ha. «Con Gigi abbiamo vinto lo scudetto in Sardegna, una cosa che nemmeno si crede. Nel '74 la Juve punta decisa: chiede Riva e Albertosi, insieme. Gigi però non ne vuole sapere: qui sono un re, mi dice, chi me lo fa fare, con tutti questi soldi che girano vado là e pretendono la luna. Passo notti a cercare di fargliela capire. Niente. Così, salta lui e salto anch'io. Vado al Milan, alla Juve ci va Zoff. Lui ha vissuto sempre di sponda sulle mie vicende».
Bisvalida: Italia-Germania 4-3. Cornice d'oro, icona di sempre. «In fondo fu mezz'ora, quella dei supplementari. Ma mezz'ora così ti resta per l'eternità. Quando rivedo la partita, la rigioco tale e quale, come fossi ancora là. Io l'ho letta la targa sullo stadio: “Qui fu giocata la miglior partita del secolo”. Quando un uomo può dire io c'ero in occasioni simili, può dormire in pace».
Ci sono le figurine dei cavalli, la seconda passione di sempre, «anche se non mi sono mai svenato, diciamo che chiudo il bilancio alla pari». Ci sono le code di donne alla porta, «non lo nego, come potrei, ma ci sono solo due amori, la prima da giovane, a Firenze, che mi ha dato due figli, una femmina e un maschio, la seconda più avanti, a Milano, che mi ha dato la terza figlia (ora sono nonno di tre nipoti).
Però lo confesso: con la prima se capitava qualche occasione non sapevo dire no, con Elisabetta invece ho tirato i remi in barca. Quando ci si innamora sul serio viene naturale mettere la testa a posto. Ci amiamo da più di 30 anni, è ancora come allora. E una volta mica sognavamo di sposare le veline: Elisabetta, quando l'ho conosciuta, non sapeva nulla del pallone. Le ho detto che ero il centravanti dell'Inter e se l'è bevuta».
Poi c'è la figurina nera, la brutta figura del calcioscommesse ‘80, ferita mai chiusa. «Ero al Milan. Una sciocchezza da incosciente: ricevo una telefonata dai colleghi della Lazio per concordare la nostra vittoria. Anziché mettere giù il telefono, faccio la stupidata di dire tutto al presidente Colombo. Lui va avanti con la cosa e il dramma è fatto. Si sa come finisce: illecito e io pago con quattro anni (poi due, perché il Mundial dell'82 porta l'amnistia).
Avevo già il contratto per andare in America ai Cosmos, con Chinaglia e Pelè. Tutto rovinato. Ho chiuso più avanti in serie C, a Porto Sant'Elpidio, da allenatore-giocatore. È il finale che non volevo. Riparlarne, ancora adesso, mi rovina l'anima...». Resta la fase in cui allena giovani portieri e va a scoprirne di nuovi: l'ultimissima, prima della pensione definitiva, con l'arrivo degli anni Duemila.
L'ultima figurina di Albertosi: l'Italia di oggi, tutta intera, non solo azzurra. «Noi, da ragazzi, sentivamo di avere davanti qualunque possibilità. Bisognava solo svegliarsi e darci dentro. Il futuro era lì, a portata di mano, con tante sorprese. Adesso no, il futuro non c'è più. Non ci si può inventare più niente, solo rassegnazione. Lo dico con dispiacere: noi, rispetto a loro, ci siamo ritrovati la possibilità di sognare».