Di Syriza e di governo. Le Borse allarmate vs. le aperture
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volenterose dei media anglosassoni ad Atene
di Stefano Cingolani | 28 Gennaio 2015 ore 20:39 Foglio
A due giorni dalle elezioni, Alexis Tsi pras fa già il volto dell’arme: stop alle privatizzazioni (a cominciare dalla vendita ai cinesi del porto del Pireo), rilancio sul debito nonostante il “no” di Angela Merkel all’ipotesi di un netto taglio riproposto dal neo ministro delle Finanze Yaris Varoufakis, il blogger marxista che insegna a Austin nel Texas. E tuttavia, i grandi giornali anglo-americani di tendenza diversa (come il New York Times, il Financial Times o il Wall Street Journal) invitano i governi europei alla prudenza, al dialogo se non addirittura all’autocritica. Come mai?
I mercati, che lunedì avevano reagito tenendo la testa fredda, ora sono in fibrillazione. Le Borse europee hanno virato in territorio negativo, a cominciare da quella spagnola; quanto ad Atene, l’indice è in picchiata. Il crollo peggiore riguarda i titoli delle banche dalle quali stanno uscendo a frotte depositi e capitali. Per non restare a secco, Alpha Bank e Eurobank hanno già chiesto 5 miliardi di euro alla Banca centrale europea. Ma il segnale più chiaro viene dai titoli pubblici: quelli biennali sono balzati al 17 per cento, i quinquennali emessi l’anno scorso al 5 per cento sono arrivati al 13 per cento.
Dunque, c’è poco da stare tranquilli. Eppure Martin Wolf, uno dei più autorevoli commentatori economici del Financial Times, ha scritto che “se fatta nel modo giusto, una riduzione del debito andrebbe a beneficio della Grecia e del resto dell’Eurozona”. Wolf non si illude che sia semplice e teme che forse sarà impossibile, ma dà ragione su molti punti alla retorica di Syriza. Se la prende con i creditori poco responsabili (si tratta delle banche tedesche e francesi, soprattutto); e sostiene che i salvataggi del 2010 e del 2012 non sono stati affatto generosi. “E’ vero che i prestiti erogati dall’Eurozona e dal Fondo monetario internazionale ammontano alla smisurata somma di 226,7 miliardi di euro (circa il 125 per cento del pil), più o meno i due terzi del debito pubblico complessivo. Ma la quasi totalità non è andata a beneficio dei greci: è stata utilizzata per evitare la svalutazione contabile di prestiti inesigibili a favore del governo e delle banche del paese ellenico. Solo l’11 per cento ha finanziato direttamente attività del governo. Un altro 16 per cento è servito a pagare gli interessi sul debito. La parte restante è stata usata per operazioni di capitale di vario genere: i soldi sono entrati e sono usciti fuori di nuovo”. Adesso, non resta che riconoscere la validità di un alleggerimento del debito condizionato alla realizzazione di riforme verificabili: “Un politico rigetterebbe questa idea, uno statista la farebbe propria. Sapremo presto se abbiamo a che fare con politici o con statisti”.
L’invito a comportarsi da statista riguarda Angela Merkel alla quale si rivolge esplicitamente il New York Times nel suo editoriale intitolato “l’agonizzante grido della Grecia all’Europa”: “Alexis Tsipras intende mantenere fede alle promesse fatte agli elettori di abbandonare il programma di austerità riducendo il debito pubblico e restando nell’euro. Questi obiettivi sono fondamentalmente incompatibili. Ma il nuovo primo ministro ha segnalato agli europei che è pronto a moderare le sue ambizioni… E’ essenziale che la cancelliera tedesca Angela Merkel e la Troika dimostrino la stessa prontezza nel mitigare la taglia e le condizioni del fardello greco”. Non c’è molto tempo. Il salvataggio scade il 28 febbraio e il 12 dello stesso mese si tiene il consiglio europeo: “L’annuncio di una estensione del programma di qualche mese sarebbe un buon segnale”, conclude il New York Times.
E’ proprio quello che l’Unione (e la Germania in testa) non ha concesso ad Antonis Samaras. Perché offrirlo a Tsipras? Secondo alcuni, Berlino ha dato per spacciato il vecchio governo e si è tenuto la carta per ammorbidire il nuovo. Ma il gioco può diventare presto pericoloso. Ecco perché anche il Wall Street Journal, molto meno comprensivo nei confronti di Syriza, invita i leader europei “a tirar fuori un piano… Un punto di partenza sarebbe estendere le scadenze o ridurre i tassi. In cambio, i creditori potrebbero stabilire obiettivi più forti per riformare il mercato del lavoro, la regolazione economica e per affrontare la corruzione”. Anche perché non è vero che il governo precedente ha fatto tutto quel che doveva. Basti dire che la disoccupazione è esplosa quasi esclusivamente nel settore privato, non in quello pubblico dove si doveva realizzare il grosso della cura dimagrante. E il crollo delle entrate negli ultimi mesi, per la fuga dalle tasse in attesa di uno sconto europeo sul debito, dimostra quanto sia lontano il risanamento dei comportamenti prima ancora che del bilancio pubblico.
Ai concittadini tedeschi si rivolge sul Financial Times Marcel Fratzscher, del think tank berlinese Diw, invitandoli ad abbandonare la falsa idea di essere stati imbrogliati da partner inaffidabili. Berlino ha di fronte tre scelte – scrive Fratzscher – Convincere gli elettori che quel che è buono per i paesi colpiti dalla crisi è buono anche per loro; convincere i tedeschi a essere più umili; assumere una più forte leadership; “la stabilità economica e politica impone una particolare responsabilità”. Il momento è difficile, ancora una volta. Occorre mostrare flessibilità tattica e chiara visione, sapendo che davanti c’è un interlocutore imprevedibile e indecifrabile, una “coalizione dei non volenterosi” (Wall Street Journal) tenuta insieme dal no alle politiche della Ue quando non all’euro o all’Unione in quanto tale. Per questo, mentre i politici valutano e i giornali ammoniscono, i mercati cominciano a preoccuparsi.