Due chiacchiere al circolo
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L’Italia non è la Grecia, ha i numeri per dimostrarlo. Bill Emmott ci spiega che le agenzie di rating non ci condannano a morte
di Paola Peduzzi | 23 Settembre 2011 ore 06:59 Foglio
Signor Emmott, lo sa, vero, che quando Silvio Berlusconi fa riferimento ai “circoli mediatico-finanziari anglofoni” sta parlando di lei? Ride, l’ex direttore dell’Economist, l’autore della scandalosa copertina del 2003 “Unfit to lead”, il presidente onorario di quei circoli che da anni mettono in discussione la leadership berlusconiana. Oggi Bill Emmott conosce molto meglio l’Italia, la frequenta (sta imparando l’italiano, anzi, lo parla già, anche se finge di essere un principiante), ci ha scritto un libro (“Forza, Italia. Come ripartire dopo Berlusconi”) e dice cose che nei circoli (“sono anche francesi e tedeschi, comunque”, puntualizza) non sono mainstream. Chi disprezza compra? Non proprio.
Emmott commenta spesso, sulla Stampa, i fatti italiani. Nell’ultima column faceva un paragone tra le punizioni che le agenzie di rating hanno inflitto a Stati Uniti e Italia. Un downgrade molto politico. “Non c’entrano le rappresentazioni mediatiche – spiega Emmott – c’entrano le debolezze istituzionali ed economiche dei paesi. L’America ha dato un brutto spettacolo litigando sul debito in diretta tv ed è stata declassata. L’Italia ha cambiato la manovra tante volte, ha promesso alcune misure e poi le ha modificate, mostrando una fragilità che non poteva che portare a un declassamento”. Le “girls”, come le chiamiamo affettuosamente durante la conversazione, non c’entrano nulla allora? “No, non c’entrano, c’entrano le politiche”. Su questo punto Bill Emmott ha le idee chiare: il downgrade non è la fine del mondo. E’ un avvertimento, non una condanna a morte. “L’Italia non è sull’orlo del fallimento. Ha una situazione economica difficile, ma i soldi per ripagare il debito ce li ha”.
Non è la Grecia, insomma. “Bastano due conti per capire che Atene non potrà mai riprendersi – continua Emmott – E’ inutile accanirsi, è meglio dichiararne il fallimento e farla uscire dalla zona euro”. Il partito del fallimento prende piede: l’ultima tranche del bailout ad Atene è data quasi per spacciata, pure i greci lo sanno. Ma se i mercati si innervosiscono a ogni fruscio di spread, cosa accadrà quando davvero la zona euro si ritroverà con uno stato di meno? “I paesi in bilico dovranno dimostrare di non essere così deboli – dice Emmott serafico – Non dobbiamo preoccuparci troppo: hanno gli strumenti per farlo”.
Ci vuole però anche la volontà politica. Ed è qui che casca l’asino italiano. Ma scusi, caro Emmott, pure gli americani, dopo il downgrade, sono punto a capo: il presidente fa un pacchetto contro la disoccupazione implora di votare la legge, si conquista un paio di giorni di idillio bipartisan e poi i repubblicani gli dicono: no, mr President. Anzi, rimettono in discussione l’accordo sul debito raggiunto ad agosto. E quella è l’America, un paese da tripla A – come possiamo pretendere che qui da noi si litighi di meno? Per di più Obama può andare alla Fed e influenzare le sue decisioni: ha una sua valuta, l’America. L’Italia deve affidarsi alla Bce, e l’euro è di tutti. Tutto vero, ma per Emmott il punto è un altro. “C’è una differenza sostanziale. A Washington si scontrano la Casa Bianca e il Congresso, però il governo è unito. A Roma invece l’esecutivo è in perenne crisi: Berlusconi litiga con Tremonti, la Lega chiede la secessione. Le banche, le agenzie di rating si spaventano per questi fatti, non certo per gli scandali sessuali”. Insomma, abbiamo i numeri per farcela, noi italiani, ma dobbiamo dimostrare di essere politicamente credibili nel futuro. Come? Sorride di nuovo, Emmott, non ha bisogno di rispondere.