Il presidente è lì, nessuno lo vede
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Nel labirinto del segreto politico. Pochi leader lavorano su nomi tutti rigorosamente riservati.
Sarà un uomo o una donna, un tecnico o un politico. Il fumo retorico copre l’incertezza o una scelta già fatta
di Salvatore Merlo | 03 Gennaio 2015 ore 06:30 Foglio
“Il segreto è come la lettera rubata di Edgar Allan Poe”, dice Denis Verdini, canzonatorio e abbottonato. Il prossimo presidente della Repubblica è lì, davanti agli occhi di tutti. Ma nessuno lo vede perché tutti guardano altrove. E davvero non ci sono nomi in questa nebbia ma soltanto immagini rarefatte che solcano il gelo dell’oceano Quirinale, uno sconfinato mare da cui sorgono sirene e miraggi, illusioni e silenzi alimentati e custoditi da chi tesse trame e organizza manovre nel chiuso del Palazzo, ovvero da Matteo Renzi, dal suo scudiero Luca Lotti, dal vicesegretario del Pd Lorenzo Guerini, forse proprio da Verdini e poi da quel Silvio Berlusconi cui il presidente del Consiglio, lui che forse teme la spontaneità espressiva del Cavaliere, cerca di far sapere il necessario, cioè probabilmente il meno possibile.
“La riservatezza in una partita di questo genere è d’obbligo”, dice Angelo Panebianco, il professore, l’editorialista del Corriere della Sera, “ma poi non è detto, malgrado la riservatezza, che l’esito finale della partita sia quello prefissato da chi questo segreto lo mantiene così bene”, aggiunge. “Voglio dire che l’elezione presidenziale è un labirinto di trabocchetti specie nell’attuale Parlamento, composto com’è da partiti sfilacciati. Questa non sarà un’elezione facile, non ci sono forze politiche compatte come ai tempi dell’elezione di Sandro Pertini. Quello cui assisteremo sarà un gioco incerto e crudele, e la riservatezza di Renzi, la segretezza, è necessaria”. E difatti il premier diventa quasi inespressivo per eccesso di smorfie quando i giornalisti gli chiedono del capo dello stato, e dunque si trasforma in una mobilissima sfinge com’è accaduto nel corso della conferenza stampa di fine anno. Renzi scoppietta di giochi di parole, sberleffi, battute di spirito. “Certamente il presidente della Repubblica sarà un uomo o una donna”, ha detto tempo fa ai margini della sua ultima intervista al Foglio. E insomma chi custodisce il segreto usa un linguaggio traslato, elusivo, inventato lì per lì, come fa anche Verdini. Sentite per esempio cosa è riuscito a dire Lorenzo Guerini alla Stampa: “Abbiamo bisogno di un presidente che sia autorevole sotto il profilo istituzionale, appassionato per l’ansia di cambiamento che c’è nel paese e che sproni l’attività riformatrice”. Un trionfo tautologico più che un identikit, un getto vago, uno scolo di retorica assennata, una disseminazione di parole che evaporano sulla carta. “In realtà un’idea ce l’hanno” dice Panebianco, “ma fanno bene a non parlarne. La logica della trasparenza applicata all’elezione del presidente della Repubblica è ridicola. Non funziona. Noi siamo una Repubblica presidenziale di fatto, ma non di diritto. Intorno all’elezione del capo dello stato non si possono che fare manovre sotterranee”, dice. “Ci sono infatti momenti in cui, per quanto questo possa apparire un ossimoro, la trasparenza in realtà danneggia la democrazia”. Dunque shh, silenzio.
Ma il segreto, con i suoi intrecci e i suoi incastri, fa delle vittime, è un esercizio che incendia di passione e di sofferenza i candidati (e gli autocandidati) al Quirinale, è una misteriosa ginnastica che s’accompagna sempre a un tripudio di parole labirinto, come quelle di Guerini, cioè a delle contorsioni logiche che ingolfano la scena politica di eccitazioni dietro le quinte, di speranze accompagnate da effervescenze cronistiche, da zampillanti fantasie di carta stampata. Ieri Mario Draghi ha dovuto smentire d’essere interessato al Quirinale, e chissà quanti svenimenti tra smaniosi quirinabili avevano provocato le sadiche parole di Renzi: “Anche un tecnico andrebbe bene”. Violare il segreto del Quirinale, per i giornalisti è un carnevale un po’ cannibale e un po’ creativo, ma per gli aspiranti presidenti, per gli ambiziosi, è una sofferenza. “Sono loro le vittime d’ogni suggestione, d’ogni parola, d’ogni allusione”, dice Panebianco.
E ciascuno degli aspiranti presidenti infatti chiede, telefona, cerca intermediari: “Ma Renzi che ne pensa di me?”, “e Berlusconi avrebbe qualcosa in contrario?”, “ma di me ne parlano?”, ciascuno vuole penetrare il segreto. Scene un po’ ridicole e un po’ drammatiche, involontari spelacchiamenti e umiliazioni telefoniche con colonnelli, caporali, graduati semplici del renzismo e del berlusconismo. L’inesausta condizione del desiderio trasforma i quirinabili in vittime dell’inarrestabile chiacchiericcio che cola giù dalle colonne dei giornali come da una grondaia dopo la pioggia. Loro leggono e ci credono, dunque leggono e si fanno felici, oppure leggono e piangono, ciascuno con la sua monocorde appassionata potenza nel rendere plausibile l’ossessione privata di farsi presidente della Repubblica: Anna Finocchiaro e Dario Franceschini, Romano Prodi e Giuliano Amato, Walter Veltroni e Pier Ferdinando Casini… “Anche Fanfani e Andreotti furono triturati dal mormorio e dalle indiscrezioni, dalle vere, false o verosimili violazioni del segreto”, dice Giovanni Orsina, storico della Luiss ed editorialista della Stampa. “Cento volte Fanfani e Andreotti sono entrati da papi nell’elezione presidenziale di Montecitorio e ne sono poi usciti sconfitti”, avvolti nel sudario delle chiacchiere e dei pettegolezzi che, come un veleno, rendono inane qualunque moto dell’anima o del pensiero. “Il nome di Giorgio Napolitano invece uscì all’ultimo momento”, ricorda Orsina. E insomma “tranne forse che per Francesco Cossiga, quelli presidenziali alla fine sono stati sempre dei parti improvvisi, in un gioco molto difficile da controllare per chiunque”. E Orsina sembra così dire che il segreto del Quirinale, in realtà, non esiste, nemmeno nel chiuso delle stanze in cui lavora Matteo Renzi, “non è un vero segreto perché un nome non c’è, e il segreto in verità occulta un problema. Vaghezza e riservatezza non sono necessariamente indizi di una scelta già fatta che tuttavia non si vuole comunicare. Semplicemente questo è per Renzi il passaggio più pericoloso da quando è arrivato a Palazzo Chigi. E di conseguenza ciò prescrive cautela. Il meccanismo dell’elezione del capo dello stato è infatti la macchina infernale in cui storicamente si sono stritolati tutti gli uomini forti d’Italia, come Fanfani”. E dunque, il segreto del Quirinale, le braccia incrociate di Guerini, le labbra strette di Lotti, l’andatura circospetta di Delrio, il linguaggio elusivo di Renzi sono la trovata retorica che nasconde il lavorìo, cioè l’assenza di soluzione, tutto un marasma di ambasciate, appuntamenti, telefonate, bigliettini, decisioni, promesse, rinvii, riunioni e bugie “che impongono a Renzi di non scoprire le carte proprio nel momento in cui c’è da giocare la mano più pericolosa del suo poker politico”, dice Orsina. “Renzi tace perché stavolta non c’è da fare nessuna narrazione eroica, perché negli annunci non c’è alcun beneficio, perché questa è una faccenda tutta diversa dal Jobs Act o dal bonus di ottanta euro”. E allora forse ha ragione Verdini, malgrado forse non intendesse proprio questo: “E’ come la lettera rubata di Edgar Allan Poe”. Il prossimo presidente della Repubblica è lì, davanti agli occhi di tutti, ma ancora nessuno lo vede, nemmeno Renzi. Ma questo è un segreto.