Krugman contro Krugman. Una guerra di contraddizioni
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L'economista liberal, Premio Nobel per l'Economia, cambia idea sull'effetto degli eventi bellici sul Pil. Il militarismo di Putin e dei Neocon fa male, quello degli altri no
di Luciano Capone | 29 Dicembre 2014 ore 16:09 Foglio
Lo scorso 21 dicembre il premio Nobel Paul Krugman, influente opinionista e capofila del pensiero neo-keynesiano, in un editoriale sul New York Times ha scritto che la guerra fa male all’economia: “La guerra moderna impoverisce allo stesso modo vincitori e vinti – dice Krugman, riferendosi al militarismo di Putin e a quello dei neocon – la guerra o la minaccia della guerra, distruggendo i commerci e relazioni economiche e i legami finanziari, infligge grandi costi ulteriori a quelli per schierare e mantenere gli eserciti. La guerra rende più poveri e più deboli, anche se si vince”. Le guerre hanno enormi costi sia umani che economici e, in un mondo in cui i paesi sono sempre più interconnessi, sono al massimo necessarie o inevitabili ma mai auspicabili, sprecare soldi per distruggere capitali e infrastrutture non è il metodo più efficace per migliorare le condizioni economiche di un paese. Si tratta di un commento di semplice buon senso, che però è sorprendente se a metterlo nero su bianco è Paul Krugman, che nel corso degli anni è stato uno dei sostenitori del “keynesismo di guerra”, la versione bellica dell’assunto keynesiano che basti pagare le persone per scavare buche e ricoprirle per avere crescita. Baionette e soldati anziché pale e scavatori.
Nel corso degli anni Krugman ha spiegato più volte che le guerre grazie all’aumento della spesa pubblica sono utili a uscire dalla recessione e dalla stagnazione economica. L’esempio emblematico, più volte citato dal Nobel, è quello della Crisi del ‘29: “Ciò che realmente ha messo fine alla Grande Depressione è stato quell’enorme programma di spesa pubblica altrimenti noto come Seconda Guerra mondiale”, ha affermato più volte Krugman.
Ciò non vuol dire che l’intellettuale di riferimento della sinistra anti-austerity sia insensibile alle violenze, ai disastri e alle perdite di vite umane, ma da economista sostiene che paradossalmente tutto ciò ha un effetto economico positivo. Usando le parole di De Gregori col segno meno davanti, Krugman direbbe che “la guerra è brutta anche se fa bene”. Fa bene per lo stimolo finanziario della mano pubblica: in fondo in guerra si hanno spesa pubblica e piena occupazione, due punti cardine del keynesismo. Anche nei momenti più tragici della storia statunitense come l’11 settembre, Krugman ha sostenuto che dal male degli attentati terroristici ci sarebbero stati dei benefici economici dovuti all’aumento della spesa pubblica per la ricostruzione. Ai fini economici non è importante se la distruzione sia opera dell’uomo o della natura, ciò che conta sono le risorse mobilitate dal governo stampando moneta, prendendola in prestito o tassando. Come nella parabola keynesiana delle buche, in guerra il governo spende prima per distruggere e poi per ricostruire e questo comporta uno stimolo maggiore per l’economia rispetto alle catastrofi naturali che distruggono gratis. Ma in ogni caso anche terremoti e tsunami, come nel recente caso di Fukushima, secondo Krugman sono espansivi.
Ovviamente ci sono economisti come Robert Barro che, usando un po’ di dati, cercano di spiegare che nessun pasto è gratis, figurarsi le guerre. Ma per Krugman le cose non stanno così, lo sforzo bellico fa crescere l’economia e anche in questa crisi “ciò di cui abbiamo bisogno è l’equivalente finanziario di una guerra”. Certo, sarebbe preferibile mobilitare al massimo le forze di difesa evitando bombe, distruzioni, morti e feriti. L’ideale sarebbe insomma una guerra finta. Scherzando Krugman ha sostenuto che per sconfiggere la stagnazione basterebbe una finta invasione aliena che costringa i governi a gonfiare i bilanci e pompare l’inflazione. Anche sulla guerra in Iraq dell’arcinemico George W. Bush, pur non condividendone le motivazioni, Krugman sosteneva che aveva avuto un effetto positivo sul pil: “La verità è che la guerra è, in genere, espansiva per l’economia – scriveva sul suo blog nel 2008 –. Sì, ci sarebbero modi infinitamente migliori di spendere i soldi. Ma in un periodo in cui il problema è il deficit di domanda, la guerra in Iraq agisce come una specie di programma governativo che sostiene direttamente e indirettamente l’occupazione”. Ora a distanza di qualche anno Krugman rivede il suo keynesismo di guerra, usando proprio l’esempio iracheno: “La verità, tuttavia, è che la guerra davvero non paga. L’impresa in Iraq ha finito chiaramente per indebolire la posizione degli Stati Uniti nel mondo, mentre è costata più di 800 miliardi di dollari e molti di più in modo indiretto”. Le relazioni economiche e la libertà degli scambi sono più benefiche delle guerre. Per il 2015 fate il commercio, non fate la guerra. Ora lo dice anche il prof. Krugman.