Uccidere i bambini a Natale
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Da Erode alla cronaca e alla sordità morale sull’aborto. Perché non perdoniamo agli innocenti
di Maurizio Crippa | 29 Dicembre 2014 Foglio
Lasciarsi guidare dal calendario in fondo è la cosa più semplice, il punto di partenza della cronaca. Soprattutto quando
la cronaca fa a pugni con la possibilità di comprendere e affonda le ambizioni di giudicare. Dice il calendario (che sia quello liturgico è un dettaglio che non dovrebbe scoraggiare) che domani, 28 dicembre, tre giorni dopo il Santo Natale, è la Festa dei Santi Innocenti (cade il 29 dicembre, per la chiesa ortodossa). Tre giorni dopo la festa in cui i cristiani celebrano la nascita di un Bambino che è Dio e il resto dell’occidente, inteso come mercato delle idee globali, celebra la baracconata della Festa dei bambini – una specie di festa dell’Essere supremo ridotta a sentimento e coccola di peluche, in balìa dei nonni e degli spendaccioni, insomma la festa del bamboccionismo come annuale gratifica del sentirsi buoni – il calendario, che è più realista, celebra la Festa dei Santi Innocenti. Che è il ricordo della Strage degli Innocenti. Per chi fosse proprio sprovveduto di calepino, è il Vangelo di Matteo, 2, 13-18. Quando Erode, furibondo per l’inganno dei Magi che se ne tornarono a casa loro per un’altra strada, senza avergli rivelato dove abitasse il Bambino, ordinò di uccidere tutti i maschi nati entro i due anni, cosicché non rimanesse vivo quello di cui era stato predetto che sarebbe stato Re. Così immane è l’infamia, che Matteo si affida a Geremia: “Un grido è stato udito in Rama, un pianto e un lamento grande: Radi Maurizio Crippa chele piange i suoi figli e non vuole essere consolata, perché non sono più”. (Per gli storici, l’episodio non ha concretezza storica. Ma i calendari liturgici seguono i fatti, e si ingannano poco).
E’ molto stretto il giro del calendario tra la festa del Bambino e i bambini cui Erode volle fare la festa. Ma la cronaca è anche più stretta del calendario e sempre più spesso fa a pugni con la possibilità di comprendere, con la volontà di farlo. La cronaca dice che si uccidono molti bambini a Natale. Di solito non c’è nessun presidente in televisione a graziarne un paio, come i tacchini di Thanksgiving. San Severino Marche, Italia, la sera della vigilia di Natale. Lui ha tredici anni, lei ha problemi psichici, lui ha provato a scappare per le scale. Lei poi ha detto: “L’ho ucciso perché me lo volevano portare via”. L’ha tenuto tutto per sé, con tredici coltellate. Quartiere di Manoora a Cairns, nord-est dell’Australia, una settimana fa. Una madre è stata incriminata per l’omicidio di otto bambini tra i 18 mesi e i 15 anni, uccisi dentro la sua casa. Sette erano figli suoi. Voleva che non provassero il dolore della vita? Era lei a soffrire troppo? Come la mamma che qualche giorno prima di Natale il suo fagotino di pochi mesi se l’è portato al largo nelle acque gelate di Bordighera, Italia, e poi l’ha lasciato scivolare sul fondo. Nel silenzio, senza un grido.
“Vogliamo che proviate dolore”, hanno detto invece i talebani dopo il massacro di 132 bambini (ma molti erano già nell’età della pubertà: meglio, secondo i loro carnefici) nella scuola di Peshawar, Pakistan, lo scorso 16 dicembre. Lì le grida ci sono state. Non che ai talebani importi del calendario occidentale o del Natale cristiano. Il loro calendario è come una infernale “aere sanza tempo tinta”, la data di nascita non conta, perché non conta la vita, intesa come vita della persona, conta solo la data di morte: della morte portata agli altri. E l’uccisione dei bambini è una variabile indipendente dell’infliggere dolore al nemico. Bin Laden dopo l’11 settembre si augurò che “l’America potesse sentire quello che sentiamo noi e la smettesse di uccidere i nostri bambini e le nostre mogli”. La strage dei bambini di Peshawar apparentemente ha poco da spartire con noi, e condivide tutta la sua devastante antiumanità con i tagliagole che compirono il massacro della scuola di Beslan, Ossezia del nord, nel 2004. E i bambini di Siria, e i bambini di Nigeria.
Ciononostante, non possiamo negare che la strage dei bambini non riguardi anche noi. Noi che in questi giorni celebriamo tutt’al più l’infantilismo come regressione in uno stato di bontà misteriosamente elargita dal transito delle stelle. Meglio gli incontri ravvicinati di Spielberg, allora. Meglio anche del Christmas Carol con il quale Dickens ha scritto il vero quinto vangelo di Natale, trasformandolo nel populismo religioso della ri-nascita della vita, in base alle esigenze socio-educative della civiltà borghese. Ma tutta questa bontà spalmata sui regali non preserva nemmeno l’occidente dalla malvagità. Solo che, a parte le madri sventurate, di solito i sistemi sono meno cruenti. Andrebbero invertiti i fattori: non capiamo il Natale perché non capiamo la Strage degli Innocenti, non vogliamo credere che sia possibile e non vogliamo che ci venga rinfacciata. La strage degli innocenti è stata per un paio di millenni un buon tabù. Mai più bambini massacrati, nemmeno il re o il dittatore più feroce ambiva a essere paragonato a Erode. Scrooge smette addirittura di essere un capitalista selvaggio, per paura del paragone. E’ stata una grande narrazione su cui si è edificata, a poco a poco, l’infanzia e lo è stata, soprattutto, attraverso il gran teatro dell’arte. Dal Ghirlandaio a Santa Maria Novella a Bruegel che l’ha ambientata nell’inverno fiammingo, da Giotto a Duccio. E oggi è uno dei topos del fotogiornalismo di guerra a tutte le latitudini. Mai più bambini ammazzati. La più bella, forse, e meno nota cronaca della Strage degli Innocenti sta però nelle montagne del nord Italia. Nella cappella undicesima del Sacro Monte di Varallo. E’ lì che un artista “dialettale” e forse un po’ sadico, Giacomo Paracca della Valsolda, un semisconosciuto “plasticatore”, più che scultore, la cui opera Giovanni Testori, il primo e più grande critico d’arte ad aver riscoperto il “Gran Teatro Montano” della Valsesia, a un certo punto, giocoforza, paragona a quella delle telefoto (il corrispettivo, nel 1969, degli scatti digitali multipli presi e postati sui social media), ha messo in scena l’orrore. Andava di fretta Paracca, per riempire di statue e corpi dilaniati e volti infernali lo spazio chiuso della sua Strage. Scriveva Testori, quasi mezzo secolo fa, che come un cronista “non ha tempo, né necessità, né estetico bisogno” di esporre in pensieri la sua “protesta di piazza” contro la strage: “E così, nella sua violentissima effettuazione, i pensieri dobbiamo andarceli a cercare noi; che è un lavoro, ora orripilante, ora, per contro, commoventissimo”. Come quando riusciamo a scoprire “l’unico innocente che, nella girandola dello sterminio, è ancora per qualche tempo salvo e il cagnolino che gli sta di lato”. Oppure “l’uccellino-giocattolo che un altro sembra voler salvare con più premura delle sue stesse ossa”.
Tutta la cappella, notava Testori, è “sul piano poetico, un atto liberativo”. Lo si potrebbe dire anche per altre opere d’arte antiche. Quel che fa la differenza, per chi l’ha vista, è che qui “la liberazione” avviene “per la via direttissima del dialetto”, di un’arte popolare, immediata, truce, che allora come ora è la lingua di quelle stragi vive sulla propria pelle. Perché di certo parlavano nel loro dialetto le madri della scuola di Peshawar; e in una lingua popolana parla la mamma di Loris, il bambino di Ragusa che a scuola non è mai arrivato. Come parlano una lingua feroce e inconsapevole tutti quei potenziali stragisti che alla mamma di Loris hanno scritto “chi ha problemi psicologici non dovrebbe mettere al mondo dei figli”, o “maledetta, io lo sapevo fin dal primo giorno che eri stata tu”. E dunque è nel dialetto del popolo e delle madri “strangosciate” che la Cappella della Strage trasmette “la sgradevolezza e l’insostenibilità d’una vera e propria emorragia; se non già d’un vomito”. Come le viviamo, come ce le raccontiamo oggi quelle morti di bambini ammazzati? “Non possiamo negare che, come in noi guardando quelle telefoto, anche nel Paracca aggalli la rogna della perversità e del sadismo; anzi, per essere sinceri, in lui, quella rogna, più che aggallare, si scatena e si fa orchestra; banda chiassosa e urlante di paese; coro atroce da stalla”. Se parli dell’arte del Cinquecento o di oggi, con Testori è sempre rischioso stabilirlo: “Per una cultura come la nostra, che s’è estasiata al grande cartellone o fondale da teatro di Guernica, dovrebbe essere da correttivo veder come si possa esprimere l’atrocità senza mettersi politicamente contro l’assassino”. Nella cappella della strage, nel racconto plastificato dell’eccidio, nel mimetismo angosciato delle madri, “la loro caprina, bestiale, zoccolante, miseranda, invereconda e assediata verità valligiana”, “nei limiti furenti e contratti non della lingua, del dialetto”, nell’orrore di “meditare sulle due teste di innocenti che se ne stan affiancate, l’una così distrutta e spappolata, l’altra sul punto di cominciare a tumefarsi”, c’è lo spazio scomodo di giudicare non la cronaca, ma quel che pensiamo dei fatti. Dei bambini, anche. “Il sadismo è lì, a un passo; eppure, proprio a quel punto, una sorta di irruzione tra di pietà e di sdegno, capovolge in protesta umana, in protesta da piazza o da chiesa”.
Breve salto in avanti di quattro secoli. L’orrore urlato delle statue di Paracca era ancora, in fondo, un orrore battezzato cristiano. Forse allora non volevano bene, in senso moderno, ai bambini; ma non li trattavano come oggi, come oggetti di valore relativo, e relativizzabile. Il paradosso della festa bambocciona che abbiamo appena trascorso, la festa dei bambini intoccabili per un giorno, è che ai bambini non perdoniamo. Preferiamo “fare la festa” ai bambini. Quando ci fu la strage di Newton, Connecticut, il 14 dicembre 2012, un’altra strage di Natale (un ventenne entrò nella Sandy Hook Elementary School e uccise 27 persone, di cui 20 bambini) Annalena Benini scrisse per il Foglio un bel pezzo, dei suoi. Citò una frase di Barack Obama, che nella sua avvolgente retorica ebbe a dire che essere genitori è “avere il proprio cuore sempre fuori dal proprio corpo. Che se ne va in giro”. E’ vero, commentò Annalena. Non è vero affatto. L’unico modo di essere genitori è averlo sempre dentro il proprio corpo, il cuore. Cioè sapere che noi siamo noi, bambini figli di qualcuno, e i nostri figli non un possesso affettivo e volubile come gli affetti, ma i legittimi eredi di quanto possiamo trasmettere loro. In quegli stessi giorni, a proposito di Newton, Giuliano Ferrara scrisse una cosa notevole: “Io ad esempio credo che le stragi dei bambini nella società ricca e pacificata siano diretta conseguenza della sordità morale con cui abbiamo ratificato l’aborto di massa”. Nessuno si azzardò a contraddirlo, nessuno ebbe il coraggio di dire che aveva ragione. E invece è un punto di vista con molte ragioni. Ma è un po’ come per gli aforismi, nel senso della geniale definizione che ne dava Karl Kraus. Non sono mai la verità: o sono una mezza verità, o sono una verità e mezza. Il conto non torna mai, se non forse invertendo l’ordine dei fattori. Al netto dei tagliagole islamici, che hanno motivazioni più feroci ma meno votate al progresso, che oggi la strage occidentale degli innocenti sia legata innanzitutto alla sordità morale sull’aborto (oramai accettato anche teoreticamente come pratica eugenetica tout-court), l’ha ricordato anche il Papa il giorno di Natale (i bambini “uccisi prima di vedere la luce”). L’eutanasia dei bambini in Belgio e in Olanda, la confusione distratta con cui la cultura e le pratiche educative pretendono di scomporre e ricomporre l’identità sessuale dei bambini come fosse una variabile sociale sono altri aspetti della stessa destituzione di valore. Un abuso mentale, prima che fisico. Non perdoniamo ai bambini perché non concediamo a noi stessi di avere un destino migliore di quello che ci appare. Ma non si può essere buoni, senza. La sordità comincia lì.
C’è un fulminante racconto datato 1942 di Friedrich Dürrenmatt, il grande romanziere svizzero di lingua tedesca, che si intitola, appunto, “Natale”. Sono undici righe tipografiche nel corpo dell’Universale economica Feltrinelli: “Era Natale. Attraversavo la vasta pianura. La neve era come vetro. L’aria era morta. Non un movimento, non un suono. L’orizzonte era circolare. Morte le stelle. Sepolta ieri la luna. Non sorto il sole. Gridai. Non mi udii. Gridai ancora. Vidi un corpo disteso sulla neve. Era Gesù Bambino. Bianche e rigide le membra. L’aureola un giallo disco gelato. Presi il bambino in mano. Gli mossi su e giù le braccia. Gli sollevai le palpebre. Non aveva occhi. Io avevo fame. Mangiai l’aureola. Sapeva di pane stantio. Gli staccai la testa con un morso. Marzapane stantio. Proseguii”.
Alternative non è che ce ne siano molte. Forse quella che Charles Péguy, grande cronista di quel che vedeva, descriveva nel suo Il mistero dei santi innocenti: “I più vicini a me saranno questi lattanti bianchi, che non hanno fatto nulla nella vita e nulla hanno fatto dell’esistenza se non di ricevere un buon colpo di sciabola. Intendo assestato nel momento buono”.