Renzi, quel problemino chiamato "recessione"

 e il pressing del G20

di Marco Valerio Lo Prete | 17 Novembre 2014 ore 12:00 Foglio

Dalla scorsa settimana l'Italia è ufficialmente tornata in recessione, all'interno di un panorama europeo comunque non roseo.  Anche se non esiste una definizione ufficiale di "recessione", gli economisti sostengono che il nostro Paese ne sta attraversando una, l'ennesima, perché il Prodotto interno lordo (o Pil) ha registrato due trimestri consecutivi di crescita negativa. Qualcuno potrebbe obiettare che il Pil, di cui misuriamo l'andamento e da cui facciamo discendere la definizione di "recessione", sia un indicatore datato e parziale. Probabile, d'altronde il Pil è sempre stato concepito, fin dalle sue origini ufficiali nel Secondo Dopoguerra, per misurare le capacità produttive di un'economia più che il livello di benessere diffuso. Eppure gli effetti di un calo del Pil si fanno presto sentire sulla vita di tutti i giorni. E' quello che aveva intuito già William Petty, un signore inglese dal multiforme ingegno vissuto tra il 1623 e il 1687, al quale viene attribuita la prima formalizzazione dell'indicatore che oggi chiamiamo "Pil". Scrisse Petty: "Il mio metodo non è molto comune perché, invece di utilizzare solo termini comparativi o superlativi e argomenti di tipo logico, ho deciso di iniziare a esprimermi in termini di numeri, pesi e misure, a mo' di campione sperimentale di quella che chiamo Aritmetica politica". Petty infatti stimò per primo le spese complessive dei 6 milioni di inglesi dell'epoca, poi i loro redditi noti - provenienti dal lavoro della terra, dalla vendita di immobili, dalle attività mercantili -, i redditi finora sottostimati che provenivano dal lavoro salariato, e concluse che la tassazione necessaria a finanziare le guerre con l'Olanda era ingiusta, doveva essere ricalibrata per essere più efficace e favorire la vittoria militare del suo Paese. Ancora oggi, per ragioni assimilabili a quelle del XVII secolo, studiare l'andamento del Pil è fondamentale, sia per valutare le politiche più adatte ai singoli Paesi, sia per comprendere la situazione del cittadino comune.

Arriviamo dunque ai dati della scorsa settimana. Nel terzo trimestre del 2014, la crescita dell'Eurozona ha accelerato dello 0,2 per cento. La ripresa europea è lontana da quella registrata ancora una volta negli Stati Uniti (+0,9 per cento sul secondo trimestre) e nel resto del mondo. In Italia, addirittura, nel terzo trimestre del 2014 il pil è diminuito dello 0,1% rispetto al trimestre precedente e dello 0,4% nei confronti del terzo trimestre del 2013. Così si spiega l'ufficiale ritorno del nostro Paese in recessione: l'andamento del pil infatti era stato negativo anche tra aprile e giugno, dopo un andamento piatto tra gennaio e marzo, perciò abbiamo ora i due trimestri consecutivi di crescita negativa che fanno parlare gli economisti di "recessione".

L'Italia compie in questo modo quello che gli esperti chiamano "triple dip", cioè una tripla caduta: prima la profonda recessione del 2008-2009, seguita  da una lieve ripresa nel 2010-2011; poi dal terzo trimestre 2011 un nuovo crollo, interrotto solo apparentemente alla fine del 2013 e seguito invece da una nuova caduta. In Italia non si vede un tasso di crescita positivo da 13 trimestri, cioè dalla metà del 2011. Nell'anno in corso il Governo Renzi, che fino a questa estate aveva previsto una crescita positiva dello 0,8 per cento, si attende adesso un Pil complessivamente in calo dello 0,3 per cento. Una pur flebile ripresa è dunque rimandata al 2015, anche se qualcuno già mette in conto un segno meno per l'anno prossimo.

Se poi si studia l'andamento del Pil pro capite - cioè il Pil reale diviso per la popolazione del Paese - si otterrà una misura più evidente del tenore di vita e del divario crescente tra l'Italia e il resto dell'Unione europea. Ecco alcuni numeri in proposito, tutti reperibili sul sito di Eurostat. Iniziamo dal 2003, quando il pil pro capite di un cittadino dell'Unione europea era pari a 20.600 euro. Fatto 100 questo pil pro capite, sempre nel 2003 il pil di un cittadino tedesco era 116 (23.900 euro) e quello di un cittadino italiano 111 (23.000). Nel 2008, alla vigilia della crisi, se il pil pro capite di un cittadino europeo era sempre pari a 100, quello di un cittadino tedesco era ancora 116 e quello di un cittadino italiano era già sceso a 104. Nel 2013, cioè dopo 5 anni di crisi, se il pil di un cittadino europeo è di 25.700 euro e lo poniamo uguale a 100, quello di un cittadino tedesco è 124 (cioè 32.000 euro), quello di un cittadino italiano è precipitato sotto la media europea, pari a 98 (cioè 25.200 euro).

L'Italia è il fanalino di coda di un'Eurozona che però, nel suo complesso, si muove tutta a rilento. E' quanto emerso anche dalle discussioni del G20 appena concluso a Brisbane, in Australia, paese che - per stare al discorso di cui sopra - non ha mai attraversato una recessione negli ultimi 23 anni. La presidenza australiana del G20 ha premuto sui governi degli altri 19 grandi del pianeta per inserire crescita e occupazione al centro del comunicato finale del vertice, evitando di dilungarsi su altre materie. Nel comunicato finale si legge tra l'altro che "la crescita si è ripresa in alcuni Paesi avanzati, come gli Stati Uniti, il Regno Unito e il Canada, però la stessa ripresa è modesta in Giappone e nell'Eurozona, e l'inflazione è molto al di sotto degli obiettivi". Ancora: "L'economia globale è trattenuta da una carenza di domanda, mentre risolvere i problemi di offerta è decisivo per aumentare il potenziale di crescita". Dal vertice, oltre a un'enfasi sul rilancio di infrastrutture e commercio globale, è arrivato pure un invito esplicito ad accelerare il pacchetto di investimenti annunciati dalla Commissione europea, oltre che un sostegno alla Banca centrale europea e a ulteriori misure espansive della stessa. La recessione è una questione statistica, ma se si realizza di nuovo in Italia fa paura al mondo.

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