Il sogno interrotto di un futuro migliore

L’economista: la fine della mobilità sociale

ha prodotto rassegnazione

21/08/2014 MICHELE BRAMBILLA MILANO La Stampa

1-Per tutti gli anni 50, 60 e 70 abbiamo cresciuto i nostri figli con una speranza che era di fatto una certezza: quel bambino avrebbe avuto un futuro migliore del nostro. Era una prospettiva che accomunava tutti gli italiani, non solo i ricchi. Il figlio avrebbe occupato, nella società, un posto più prestigioso del padre: fosse anche un livello superiore nel ceto impiegatizio, com’era nei sogni del dipendente ministeriale Alberto Sordi nel film «Un borghese piccolo piccolo» di Mario Monicelli. 

Il diplomato del ceto medio avrebbe avuto un figlio laureato; l’operaio, un figlio del ceto medio. Si può dire che non era una società meritocratica, perché la base di partenza restava determinante: ma non c’è dubbio che quella che gli studiosi chiamano «mobilità sociale intergenerazionale» è segnata, nella storia d’Italia del dopoguerra, da continui e forti miglioramenti. 

Fino a qualche anno fa. Oggi, quella fede in un progresso inarrestabile si è interrotta, al punto da far dire a Corrado Passera – nell’intervista a La Stampa di ieri – che l’ansia per il futuro dei figli è la principale preoccupazione dell’Italia di oggi. Soprattutto è la preoccupazione del ceto medio, che pare destinato a subire la più brusca retrocessione. 

Il perché ce lo spiega Mauro Magatti, sociologo ed economista, docente alla Cattolica di Milano, autore di diversi libri sul tema: «La mobilità sociale dei decenni passati era dovuta al fatto che tutta l’Italia cresceva. Quando la crescita si è fermata, sono venute fuori le differenze fra i ceti sociali. La fascia alta manda i figli all’estero a fare l’università, e a volte anche il liceo». Certo i ricchi hanno sempre mandato i figli all’estero: ma oggi molto più di prima.

«Poi c’è un ceto – continua Magatti – diciamo così medio-alto, che quando può manda i figli all’estero dopo l’università: succede soprattutto a Milano, Torino e Bologna, ma ormai anche al Sud. In questo ceto rientrano pure i piccoli e medi imprenditori o lavoratori autonomi, che una volta passavano la propria attività al figlio per tradizione familiare: oggi, se lasciano l’azienda al figlio, la lasciano per mancanza di alternative. Infine, c’è il ceto medio impiegatizio, segnato da un quasi totale abbandono di prospettive di mobilità sociale».

Il clima generale è questo. La maggior parte delle famiglie di oggi pensa che, se va bene, i figli manterranno le posizioni dei padri: ma è scomparsa pure la certezza del posto fisso, che come diceva il ragionier Fantozzi sarà anche stata anche la certezza di una vita mediocre, però sempre meglio dell’incertezza. 

Al di là del danno economico, tutto questo produce nei giovani un danno psicologico enorme: pessimismo, rassegnazione. I dati più recenti parlano di circa due milioni di giovani che non studiano né lavorano: sono lì, parcheggiati. Un’altra strategia è continuare a studiare a oltranza, visto che non ci sono posti di lavoro: è una strategia attendista.

Ma forse il pericolo più grosso è pensare che la crisi sia destinata ad essere infinita, e che reagire sia inutile. È un pericolo cui deve stare attenta soprattutto la politica, che – al di là della crisi economica – da anni mostra ormai di non avere fiducia nel futuro. Chi mette al mondo un figlio oggi sa di non trovare, nello Stato, un alleato: il nascituro sarà per il Fisco solo una tassa in più. L’altro giorno il Comune di Milano ha diffuso alcuni dati illuminanti: in città ci sono 380 mila single, 170 mila coppie senza figli e solo 15 mila famiglie composte da cinque o più persone.

«Purtroppo la questione del rapporto fra tasse e famiglie – dice il professor Magatti, che con la moglie Chiara Giaccardi, anche lei docente alla Cattolica di Milano, ha avuto cinque figli e ne ha preso un sesto in affido – è stata il terreno di uno scontro ideologico fra cattolici e laici, e così si è fatta confusione. Ma, al di là di ogni questione ideologica o religiosa, una società si garantisce un futuro non solo se c’è un patto fra i suoi cittadini, ma anche se c’è un patto fra generazioni. Un bambino che nasce non è solo un fatto privato, è un bene di una società che guarda al futuro». 

Ecco che forse uno dei modi (non l’unico, certo: ma uno dei) per reagire alle ansie dei genitori dovrebbe essere, dalla parte della politica, un’iniezione di fiducia. In Francia chi fa figli paga meno tasse, e chi ne ha almeno quattro non ne paga affatto. E la Francia è un Paese molto più laico del nostro: semplicemente, ha capito che scommettere sulle nuove generazioni non è una questione ideologica.

2-Se crescere un figlio costa 171 mila euro

Casa, cibo e trasporti le voci più pesanti: sempre più cara la scuola

Da una parte o dall’altra dell’Oceano, cambia poco. Crescere un figlio è un bell’investimento. Non solo d’affetto, tempo, speranze e preoccupazioni. Ma anche – e ci sarà perdonato di essere un po’ venali – in termini di denaro. L’ultimo dato viene dagli Stati Uniti e da un rapporto del governo: le famiglie americane con un figlio nato nel 2013 sono destinate a spendere in media 245 mila dollari dal giorno della nascita fino ai 18 anni del pargolo. A cambio attuale, fanno 184 mila euro, college ….

3-Ecco i Coccoloni, bamboccioni tedeschi che vogliono famiglia e posto fisso

Nel Paese della piena occupazione, i ragazzi lasciano casa sempre più tardi..........

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