Burocrati o politici: chi scrive le leggi in Italia?

Blog post del 19/08/2014, linkiesta

Nel sonnolento agosto da spiaggia, imperversa sui giornali il dibattito sulla modernizzazione della macchina pubblica del Paese, a partire dalla fine del bicameralismo perfetto, così da rendere il processo di scrittura e approvazione delle leggi più spedito e rispondente alle esigenze di una società che corre. Molto si potrebbe dire sul fatto che in Italia abbiamo sin troppe leggi e che il punto probabilmente non è scriverne di più e più celermente ma in numero minore e più chiare.

E cosa fa il Governo quando deve preparare le proprie proposte di legge? La palla passa ai Ministri, i quali, evidentemente, si rivolgono alla struttura, chiedendo ai propri Uffici Legislativi e Segreterie Tecniche di raccogliere quegli elementi utili dagli uffici competenti per materia al fine di elaborare bozze di proposte normative che, tradotte in articoli e commi che rimandano ad altri commi ed articoli, approdano, infine, in Parlamento. Se a questa ordinaria attività aggiungiamo l’abbordaggio emendativo ai vari “treni” legislativi in Parlamento e il vero e proprio assalto alla diligenza da parte dei parlamentari amabilmente sollecitati da lobbies del più vario genere, la frittata è fatta. La mia replica a Stella e Ichino, allora, è la seguente: ma i gruppi parlamentari, con i propri Uffici Legislativi, i propri funzionari ed i propri esperti, cosa fanno? Attendono sereni che arrivi loro da parte dei palazzi romani la pietanza precotta per riscaldarla poi nelle cucine di Montecitorio e Palazzo Madama? Un po’ comodo lamentarsi che non piaccia il piatto servito quando si rinuncia persino all’ordinazione!

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Appare insomma ben curioso che Parlamento e stampa insorgano offesi dell’invadenza del solito burocrate che scrive, quasi ubriaco di potere, quelle norme che lo stesso Parlamento, supino, attende di ratificare, come fosse in essere una cinghia di comando diretta tra i sacerdoti custodi dell’oscuro sapere degli uffici ministeriali e le auree aule parlamentari, ridotte in catene. Se il Parlamento di fatto abdica – perché composto di nominati, perché ansioso sulla propria futura rielezione, perché fedele alla maggioranza di Governo, non è questa la sede per domandarselo – alla propria funzione costituzionale di Legislatore e la rimette in toto all’Esecutivo, è davvero bizzarro che le responsabilità per una democrazia in cui rischiano di saltare pesi e contrappesi, ruoli e funzioni, ricadano – esclusivamente – sul ceto burocratico, il quale, ove richiesto, non può che rispondere alle richieste del vertice politico. Insomma, se non è francamente credibile addossare ai funzionari parlamentari la colpa di non “sorvegliare” a sufficienza la politica al lavoro, allo stesso modo non ha senso mettere all’indice la burocrazia ministeriale perché produce quegli elementi che, rimaneggiati dall’esclusivo club dei magistrati amministrativi e contabili che presidiano gli uffici di diretta collaborazione dei dicasteri, approdano spesso inintelligibili alle Camere. In altre parole: se la tecnica legislativa è ormai incartata su sé stessa, riproducendo testi normativi che un comune mortale – e anche più di un addetto ai lavori - non è in grado di capire, spetta al Parlamento, titolare di quella funzione, indicare nuovi criteri di drafting, esigerne il rispetto dal Governo, applicarli esso stesso. Se questo non accade, è perché, come ricorda Luca Ricolfi, la politica attraversa una crisi cognitiva profonda: “nessuno costruisce un aereo, o un’automobile, o un computer, cercando di mettere d’accordo tutti i produttori che ambiscono a fornirne parti e componenti. Eppure è questa la pretesa della politica in Italia. Ed è questa, probabilmente, la ragione per cui la stragrande maggioranza degli aerei, delle automobili e dei computer funzionano, mentre le nostre leggi di riforma non funzionano quasi mai”.

Un pasticciaccio brutto, senza dubbio, che ha tante manifestazioni, l’ultima delle quali la vicenda che ha visto protagonista il Commissario alla spending review Cottarelli (ricordate il recente “stia sereno”?). Nodi che si potrà tentare di sciogliere solo se gli attori del sistema, ognuno nel rispetto reciproco della sfera dei poteri e delle competenze loro assegnati dalla Costituzione, sapranno rimettersi in carreggiata, riconoscendo la piena legittimità dei rispettivi ruoli. Perché è indubbio che il primato della politica sia il fondamento del principio democratico della Repubblica: ma è altrettanto vero che non può reggersi se ciascuno dei protagonisti pubblici, chiaramente e senza infingimenti, non si assume le proprie responsabilità, interagendo su una linea di confine fra politica e amministrazione che non può che essere mobile e mutevole, ma che deve restare rispettosa della Costituzione. E perché se, in una società che è un pelino più complessa della polis ateniese, chi si elegge non legge le leggi che approva e pretende, per dirla con Dario Di Vico, che le burocrazie si occupino del mero disbrigo delle pratiche inevase, c’è davvero poco da star sereni.

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