Chi sono io per bombardare? La chiesa e la verità
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sulla persecuzione. Siamo a un disastro epocale, dice David
Meghnagi. Ma com’è difficile per i cristiani cambiare idea sugli ebrei
di Maurizio Crippa | 20 Agosto 2014 ore 09:48
“Siamo di fronte all’epilogo di un lungo processo storico. E’ toccato prima agli ebrei che sono fuggiti a centinaia di migliaia dal mondo arabo e islamico, trovando rifugio in Israele, in Europa e nelle Americhe. Tocca oggi alle ultime vestigia della civiltà cristiana orientale. Siamo di fronte a una catastrofe umana, a un disastro politico e religioso, che minaccia di travolgere tutto il sistema di relazioni internazionali. Bisogna avere il coraggio di riconoscere che chi oggi vuole la distruzione dei cristiani d’oriente e delle minoranze yazide, è anche chi vorrebbe poi la distruzione di Israele. E questo può trascinare al collasso tutto il Mediterraneo”.
E’ il pensiero che guida da tempo David Meghnagi, figlio di una famiglia ebrea di Tripoli emigrata a Roma, dopo un sanguinoso pogrom, il terzo in ventidue anni, professore di Psicologia clinica a Roma Tre, una delle personalità del mondo ebraico oggi più impegnate a riflettere sulla linea di faglia del collasso mediorientale, e sul fragile confine, non sempre univoco, del dialogo con il mondo cattolico. Meghnagi era alla Veglia del Foglio del 30 luglio, che ha avuto la capacità di spezzare un paradigma ormai stantio, ma ugualmente letale, quello che unisce “la colpa” di Israele al silenzio sulle persecuzioni cristiane. Una piccola manifestazione, ma che ha illuminato un grande imbarazzo. O un certo imbarazzo, nella chiesa e in settori della gerarchia vaticana, certe lentezze nel prendere la parola di fronte ai massacri, come ha notato persino un vaticanista come Luigi Accattoli, la dicono lunga, e dell’informazione cattolica, di fronte al crollo di quel paradigma. Pochi giorni dopo, il professor Meghnagi era a Milano, in un incontro patrocinato da curia e comunità ebraica. E proprio da qui, da un identico imbarazzo, comincia la sua riflessione.
“Imbarazzo non solo da parte della chiesa, anche del mondo laico. La grande stampa laica da Repubblica al Corriere, come l’Avvenire, hanno, di fatto, svuotato di significato l’iniziativa, riconducendola a un generico appello alla pace. Il richiamo alla pace è importante. E’ la parola più bella e più grande. Come tutte le parole può essere svuotata di significato, o peggio rovesciata nei suoi significati originari, se non si accompagna a indicazioni precise sul cosa fare e sul come agire di fronte alle situazioni, dicendo per esempio che le sanguinose persecuzioni contro i cristiani d’oriente e la minaccia contro l’esistenza di Israele in atto nel vicino oriente sono parte di un unico processo che minaccia non solo questa o quella comunità, ma la convivenza di tutti”.
Da dove nasce, secondo lei, l’imbarazzo di almeno una parte della chiesa a riconoscere questi fatti? “Da una parte c’è la memoria delle guerre di religione. Non dimentichiamo che per quattordici secoli le due religioni si sono fronteggiate sul Mediterraneo. Ma non mi sembra questo il caso. Si tratta di proteggere le minoranze religiose cristiane e le minoranze zoroastriane, che un tempo, non dimentichiamolo, erano su quelle terre la maggioranza. Si tratta di salvare le chiese e i monumenti, i libri, la musica, la lingua e la cultura d’intere popolazioni prima che sia tardi. Il secondo problema, più grave, è il retaggio congiunto di terzomondismo e antisemitismo, che purtroppo è ancora presente in alcuni strati profondi della cultura cattolica. Si ha paura a riconoscere questo cambio di paradigma, che la catastrofe minaccia parimenti cristiani ed ebrei, e che la causa del conflitto non è la nascita di Israele, come falsamente si crede, ma un odio più profondo. Riconoscere questo legame comporterebbe una rinuncia ai luoghi comuni del terzomondismo e dell’antisionismo. Il luogo comune che è Israele la causa della guerra, con il sottinteso che i cristiani debbano stare esclusivamente dall’altra parte, è l’esito di un lungo percorso che inizia nel 1967 e ha come sfondo in occidente l’alleanza fra comunismo, terzomondismo e cattolicesimo sociale. Un pregiudizio inossidabile che la veglia del Foglio ha avuto il merito di incrinare”.
Poi, aggiunge Meghnagi, c’è il persistere di un sottofondo teologico e semantico, che segnala un pregiudizio antico ancora sedimentato: “Tutte le volte che le gerarchie cattoliche valorizzano nei loro messaggi la comunanza dei ‘figli di Abramo’, s’intende mettere tra parentesi il rapporto privilegiato con gli ebrei. Quando invece usano l’espressione sulle ‘due alleanze’, sottolineano la contiguità. Sono cose sottili, ma non di poco conto. Ma qui non è in gioco solo una questione teologica e culturale. C’è un problema politico, che oggi è quello della reciprocità tra le fedi. Dunque della capacità da parte della chiesa di chiedere all’islam il riconoscimento di una reciprocità nei comportamenti”. Intende con ciò qualcosa di più ampio della sola reciprocità sulla libertà di culto? “Riconoscere che ‘uccidere il prossimo in nome di Dio è la bestemmia più grande’, deve comportare per tutte le religioni un impegno condiviso. Altrimenti il dialogo non è tale. Al massimo siamo allo stadio del buon vicinato.
Quello su cui bisogna insistere non è un generico appello alla pace, che è importante, ma che certi valori umani, che sono diventati universali, devono essere praticati concretamente in ogni luogo, in Europa come nell’oriente islamico”. Quel che aveva provato a fare Ratzinger a Ratisbona… “E’ stata un’occasione persa per le autorità religiose islamiche, che hanno frainteso il senso di quel contributo alla riflessione”. “La tolleranza, il pluralismo, il rispetto dell’altro, sono i fondamenti della civiltà emersa dopo la tragedia della Seconda guerra mondiale”. Prosegue Meghnagi: “Il rifiuto di Israele nella civiltà islamica ha un fondamento teologico nell’idea che i dhimmi, i popoli sconfitti, devono restare tali e che un territorio, appartenuto all’umma, lo deve essere per sempre. Se no non si spiegherebbe perché paesi lontani che non hanno nessun contenzioso aperto con Israele, come il Pakistan e l’Iran siano diventati tra i più ferocemente antisemiti. L’accettazione di Israele in una prospettiva anche religiosa, aiuterebbe le gerarchie dell’islam a uscire dai conflitti e dai lutti in cui è avviluppato. Sarebbe una benedizione per l’islam, come lo fu il Concilio vaticano II per la chiesa. L’Europa e l’islam potranno parlarsi per davvero, se Israele sarà fra loro, in pace e in sicurezza, testimone dei propri lutti e dei loro”.
Secondo lei la Chiesa su questi temi è in ritardo? C’è chi dice che dopo la “svolta conciliare” non sono seguiti i fatti. “La Nostra Aetate va ancora pienamente realizzata. In particolare ci sono in alcuni strati del mondo cattolico zone d’ombra rispetto a Israele come nazione: si fa fatica ad accettare che la riconciliazione con l’ebraismo non può limitarsi alla sfera dei rapporti comunitari. Come del resto è stato accolto in molti documenti ufficiali della chiesa la nascita di Israele, la sua esistenza, non sono elementi secondari del dialogo religioso”. Le recenti parole del Papa sulla necessità di fermare l’aggressore le paiono un passo per uscire da quell’imbarazzo? “Un passo importante, carico di contraddizioni. Ma è un’assunzione di responsabilità di fronte a un problema che non può più essere eluso.
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