Non è una guerra come le altre. Miller, negoziatore
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Usa, spiega strategie d’Israele e assenze obamiane
di Mattia Ferraresi | 31 Luglio 2014 ore 06:26 FQ.
New York. All’inizio dell’operazione Protective Edge a Gaza, Aaron David Miller pensava di aver visto abbastanza guerre, incursioni militari, lanci di razzi, tunnel, attacchi terroristici, scudi umani, negoziati e tregue umanitarie per poter prevedere i termini di una soluzione del conflitto. Cambiano gli attori non il canovaccio, diceva a se stesso con un certo grado di disillusione il negoziatore americano che ha lavorato agli accordi di Oslo e di Camp David. Poi l’inerzia dello scontro è cambiata, la posta sul piatto è cresciuta a dismisura, da operazione per ripulire la Striscia dai tunnel e dai razzi lanciati verso Israele si è passati alla fase in cui il primo ministro d’Israele, Benjamin Netanyahu, ha preso a parlare di demilitarizzazione di Gaza come scopo precipuo della guerra, mentre Hamas rifiuta a forza di razzi qualunque condizione per un cessate il fuoco.
“E’ diventata una guerra senza un finale”, dice al Foglio Miller, che oggi è analista di politica mediorientale presso il Wilson Center. “Tutto ruota attorno a due scenari: una tregua che pone fine alle ostilità e sostanzialmente congela lo status quo fino alla prossima crisi, e una radicale trasformazione degli equilibri, con Gaza demilitarizzata e Hamas in ginocchio. Ci sarebbe poi una terza via, quella dell’occupazione militare della Striscia, ma non credo proprio che Israele la voglia. Il fatto è che nessuna delle due alternative plausibili si realizzerà, ma la soluzione, se vogliamo chiamarla così, sarà per forza una via di mezzo che scontenta tutti”.
Perché a un certo punto Netanyahu, uomo orientato alla prudenza quando si tratta di operazioni militari, ha iniziato a parlare di demilitarizzazione? “Israele – continua Miller – ha quello che io chiamo un ‘over-under’ problem, ovvero è costretto ad alzare la posta in gioco quando le minacce superano una certa soglia. In questo caso, si è scoperto che il sistema di tunnel di Hamas è più ampio e ramificato di quanto si pensasse e la gittata dei suoi missili è più lunga. Il rapimento di Gilad Shalit è avvenuto grazie alle gallerie, quindi si aggiunge anche un elemento psicologico forte nella minaccia. La sospensione dei voli da parte dell’Agenzia federale americana ha ulteriormente complicato le cose, ha trasformato uno scontro ‘normale’ in un problema politico insostenibile per il governo di Israele. L’unica risposta credibile era la ridefinizione degli obiettivi”. Una lettura diffusa fra gli analisti politici dice che la durezza della reazione israeliana è figlia delle minacce regionali. Nell’assetto fluido del medio oriente dopo la primavera araba i movimenti islamisti hanno trovato nuova linfa, traiettoria che preoccupa Israele. Miller la vede al contrario: “In questo momento Israele è in una posizione di forza, sostenuto da un’improbabile coalizione che va dall’Egitto all’Arabia Saudita alla Giordania. Uno degli elementi inusuali di questa guerra è il silenzio delle piazze arabe.
Dove sono i manifestanti?”. L’altro elemento della crisi è la debolezza dell’America nelle trattative, che secondo l’analista deriva dalla crescita delle potenze dell’area. “Obama e Kerry hanno completamente sbagliato tempistica e termini delle trattative, ma sono certo che se avessero avuto fra le mani una soluzione credibile al conflitto l’avrebbero fatta valere. Voglio dire che Washington non sta nelle retrovie perché ha scelto la via del disimpegno dagli affari mediorientali, ma perché non ha la forza per guidarli. Certo, con un presidente che non ama il rischio e più concentrato sulla classe media che sul medio oriente è quasi inevitabile trovarsi impreparati. Ma non dimentichiamo che gli Stati Uniti sono la più grande potenza del mondo, non è un negoziato condotto male a pregiudicarne la forza”.