liberazione di Bergdahl . Eroe o disertore?
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Attriti, salti logici e sospetti
I dubbi sull’equità dello scambio per il marine. Il messaggio debole di Obama
Il sollievo per il ritorno del soldato finalmente sfuggito alle mani del nemico è turbato da cattivi pensieri prima ancora che il guerriero abbia rimesso piede sul suolo patrio. Dopo cinque anni di prigionia, il sergente Bowe Bergdahl è libero, ma la logica, il prezzo, il significato politico e le circostanze della sua salvezza offrono più punti di attrito nel dibattito che ragioni di conforto. Innanzitutto ci sono i dubbi sull’equità dello scambio con i talebani. Washington ha fatto di tutto per portare a casa il suo soldato, valore incommensurabile nel codice d’onore marziale e diplomatico, ma nei termini del calcolo strettamente militare lo scambio suona così: l’America ha restituito al nemico cinque comandanti di alto livello in cambio di un soldato semplice. La proporzione suona come un incentivo per qualunque gruppo terroristico abbia pensato di rapire un soldato americano per ottenere qualcosa in cambio. L’America non negozia con i terroristi è un antico precetto che ammette eccezioni.
“Il vero problema di questo scambio – scrive il Wall Street Journal – è il messaggio di debolezza dell’America che comunica, specialmente nel contesto del ritiro di Obama dall’Afghanistan e altrove. A lungo i peggiori soggetti in giro per il mondo hanno percepito che l’America non intratteneva negoziati sugli ostaggi, contrariamente a quanto fanno, per esempio, la Francia e l’Italia. Questo ha reso i soldati e i civili americani degli obiettivi meno promettenti”.
Il secondo aspetto della vicenda di Bergdahl riguarda le circostanze della sua cattura, il 30 giugno del 2009. Molti, a partire dai suoi compagni d’arme, dicono che si trattò di diserzione, non di cattura da parte del nemico, e in questi anni diverse inchieste giornalistiche sul soldato Bergdahl hanno messo in luce i sentimenti contrastanti di questo ragazzo dell’Idaho verso il governo che l’ha mandato al fronte.
C’è un abisso fra l’eroe che ha servito il paese “con onore” descritto dal consigliere per la sicurezza nazionale, Susan Rice, e quello che “ha disertato in tempo di guerra” di cui parla Matt Vierkant, membro dello stesso plotone di Bergdahl. La terza caratteristica problematica dello scambio riguarda il Congresso, completamente tagliato fuori dai negoziati. Barack Obama ha autorizzato le trattative con i talebani usando il suo potere di commander in chief, senza coinvolgere i rappresentanti del popolo e aggirando una legge che rendeva più difficile il trasferimento di detenuti ad alto rischio dal carcere speciale di Guantanamo. Per tre anni i dialoghi con i nemici – prima diretti, poi mediati dal Qatar – sono stati portati avanti dal potere esecutivo. E’ in questo contesto di segretezza che l’America ha anche concesso ai talebani di aprire un ufficio a Doha, poi subito chiuso per via delle proteste di Hamid Karzai.
C’è infine un dettaglio della cultura popolare che impedisce all’America di sciogliersi in un abbraccio liberatorio per il ritorno del soldato: “Homeland”. La serie televisiva basata proprio sull’infedeltà del soldato Nicholas Brody, imprigionato e convertito dai suoi carcerieri, ha avvelenato con il sospetto l’immaginario eroico del guerriero che torna a casa dopo gli anni terribili della prigionia. Per Bergdahl e per chi ha lavorato dietro le quinte per riportarlo in America, il ritorno sarà più difficile del previsto.
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di Mattia Ferraresi – @mattiaferraresi 3.6.2014