Il giustizialismo rifiutato pure dagli investitori esteri .

 Le carceri ultimatum scaduto del Consiglio d’Europa.

C’è un filo rosso che in queste ore collega il Consiglio d’Europa di Strasburgo e Piazza Affari a Milano. E’ il sistema giudiziario italiano, con l’incertezza e i timori che esso suscita quando osservato dall’estero.

Ieri è scaduto infatti il termine entro cui il governo italiano doveva inviare la sua documentazione al Consiglio d’Europa per scongiurare uno scenario allarmante: l’organizzazione internazionale, da martedì prossimo, potrebbe in ogni momento decidere che l’Italia stia ancora violando nelle sue carceri l’articolo 3 della Convenzione per i diritti dell’Uomo – quello che proibisce trattamenti inumani e degradanti – costringendo Roma al risarcimento in migliaia di ricorsi pendenti. Ieri il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, ha rivendicato però un calo progressivo dei detenuti – oggi 59.071, con una capienza regolamentare di 50 mila – grazie alle misure prese dall’esecutivo Letta e da quello attuale, e ha chiesto di “non riaprire lo scontro ideologico su amnistia e indulto”. Sulla necessità di misure di clemenza, dunque, la linea del governo non collima con quella del presidente della Repubblica Napolitano (e perciò ieri i Radicali, pur fuori dal Parlamento, hanno addirittura invitato a “discutere e sollecitare le dimissioni di Renzi”). Entro fine giugno, cioè per quando l’esecutivo si è impegnato a presentare la sua riforma della giustizia, si capirà se la linea di Renzi potrà almeno rassicurare gli investitori internazionali. Finora su questo fronte non è scoppiato l’idillio. Scriveva ieri il Sole 24 Ore: “Non c’è due senza tre. E per la terza volta, con Terna, i fondi (determinanti quelli esteri) bocciano le clausole di onorabilità volute dall’azionista di riferimento per le partecipate pubbliche”. La norma introdotta dal governo Letta e rivendicata da Renzi – per cui l’amministratore di un’azienda partecipata dallo stato decade automaticamente anche in caso di rinvio a giudizio (dunque senza condanna) a meno che l’assemblea convocata ad hoc non deliberi il contrario – non è piaciuta alle assemblee di Eni, Finmeccanica e Terna dove nelle ultime settimane è mancata la necessaria maggioranza dei due terzi. Soltanto in Enel è passata la posizione del governo.

Per il Sole 24 Ore, quotidiano confindustriale, “l’argomento chiave” usato dai fondi stranieri “è che il rinvio a giudizio è un atto dell’accusa, quindi di parte. Poi sussistono preoccupazioni per i riflessi sul business, dato che i rinvii a giudizio, di per sé un multiplo delle sentenze di condanna, finiscono per concentrarsi su chi porta le responsabilità aziendali, creando il rischio di intrinseca instabilità”. Il quotidiano americano Wall Street Journal, a marzo, era stato anche più esplicito nel denunciare il possibile cortocircuito tra norma scritta e giustizia reale: “Segnato da scandali precedenti, il governo vuole chiaramente stabilire il diritto di un board a rimuovere consiglieri sospettati di illeciti, senza dover pagare risarcimenti. Ma tali norme non si adattano facilmente al lento e stratificato sistema giudiziario italiano”. Perciò “estromettere i consiglieri prima che un verdetto di colpevolezza sia pronunciato potrebbe creare problemi se più tardi le accuse cadessero o gli imputati fossero assolti”. Nei documenti degli advisor dei fondi esteri, si fa pure riferimento a un conflitto con il principio della presunzione d’innocenza previsto da Costituzione e Convenzione europea dei diritti dell’Uomo.

Luca Enriques, già commissario Consob, osserva come “all’estero tendenzialmente questi casi sono affrontati caso per caso nei cda, dove gli amministratori indipendenti hanno un ruolo importante e si confrontano con gli azionisti proncipali”. In una società normale, dunque, quella italiana è “una clausola difficilmente giustificabile”. Diverso il discorso per le società “controllate dallo stato, dove esiste il rischio che la scelta se mantenere in carica un amministratore che ricade in quella situazione sia fatta su basi politiche e non aziendali. La clausola serve a legarsi le mani preventivamente ed evitare le pressioni dell’imputato di turno. Una versione più accettabile, allora, potrebbe rimettere la materia all’assemblea annuale (oggi la decadenza è automatica, poi c’è la possibilità di convocare un’assemblea per evitarla, ndr), con il Tesoro che s’impegna pubblicamente a non votare, lasciando decidere sul punto gli altri azionisti”. Guido Rosa, presidente dell’Associazione italiana banche estere, è “tutt’altro che stupito dai timori stranieri rispetto a lentezza e imprevedibilità del sistema giudiziario italiano. Tra gli investitori non finanziari, poi, il problema è ancora più sentito. Secondo l’ultima nostra indagine tra importanti operatori internazionali, su una scala da 0 a 100, dove ‘0’ significa ‘nessuna attrattività’ e ‘100’ vuol dire ‘massima attrattività’, l’Italia si ferma a 33,2. Cioè nella parte bassa della graduatoria d’attrazione dei capitali esteri, lontana da Stati Uniti, Germania e Regno Unito”.

© - FOGLIO QUOTIDIANO

di Marco Valerio Lo Prete   –   @marcovaleriolp

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