Petrolio e gas, ricchezza perduta per i soliti strepiti
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Ambientalisti. Torna la voglia di trivellare ma si fa demagogia.
Quell’asse Prodi-Guidi. E arriva l’accordo russo-cinese
L’urgenza di ambire all’autarchia energetica, visti i rivolgimenti geopolitici in Ucraina e in Libia, e il rinnovato attivismo di Croazia e Montenegro per lo sfruttamento di riserve di gas contese nell’Adriatico, per non parlare dell’accordo di fornitura russo-cinese, hanno motivato anche il governo Renzi, nel solco dei precedenti Monti e Letta, a sostenere la necessità di riprendere le esplorazioni di idrocarburi in Italia. Queste sono ferme ai minimi storici da un decennio, dopo un crollo dell’attività del 73 per cento registrato dal 1982. Un unicum in quanto l’Italia ha la quarta riserva di gas d’Europa e la terza di petrolio, dopo quelle di Norvegia e Gran Bretagna, ma ne utilizza solo il due per cento contro il 12 della media Ue. Di recente Romano Prodi, che da presidente del Consiglio uscente nel 1998 favorì le perforazioni Eni in Basilicata, ha illuminato la “paradossale situazione” per cui l’Italia ha buttato 500 miliardi di euro in dieci anni, spesi per importare energia, ma se raddoppiasse le estrazioni a 22 milioni di tonnellate equivalenti di petrolio potrebbe incamerare 2,5 miliardi di gettito e alleggerire la bilancia dei pagamenti di 5 miliardi, come d’altronde previsto dalla strategia energetica nazionale di Monti. Prodi, parafrasando gli studi dell’economista Alberto Clò, ha offerto una sponda al ministro dello Sviluppo economico, Federica Guidi, che aveva sostenuto l’iniziativa al G7 dei ministri dell’Energia.
Guidi è in possesso di un dossier ben più ampio per la “valorizzazione delle ricchezze del sottosuolo” nel quale si ipotizza che se si dovesse sfruttare per intero il patrimonio di idrocarburi (700 milioni di tonnellate equivalenti di petrolio) potrebbero partire 80 nuovi progetti esplorativi nei prossimi cinque/otto anni: 17 miliardi di investimenti che nell’arco di vent’anni genererebbero 60 miliardi di entrate fiscali e aumenterebbero l’occupazione di 100 mila unità lavorative annue, riducendo peraltro la pressoché totale dipendenza dall’estero. Il condizionale è obbligatorio: in Parlamento ci sono resistenze trasversali, i contrari non rispondono a una linea politica ma piuttosto sposano gli umori della piazza e contrastano il governo. Il Senato ha impegnato l’esecutivo a pronunciarsi sulla sospensione di nuove concessioni di produzione entro 12 miglia dalla costa, con l’intento di restaurare la legislazione nata sull’onda dell’isteria collettiva generata – solo in Italia – dal disastro del Golfo del Messico nel 2010, oltre a volere raddoppiare le royalty (il pagamento dei diritti di estrazione) per le compagnie investitrici. La commissione Ambiente alla Camera sta discutendo un provvedimento simile.
Il costo della “reputazione” ambientalista Ma l’intransigenza ambientalista rispecchia ancora l’opinione della popolazione? Nel paese dei comitati “No-tutto” verrebbe da dire sì. Eppure il 57 per cento degli interpellati da un sondaggio Ipso per Assomineraria, nel febbraio 2013, si diceva favorevole all’aumento delle attività estrattive, il 32 per cento riteneva adeguati i livelli attuali, solo il 9 del campione voleva fermarle. Una maggioranza che non fa rumore come il governatore del Veneto Luca Zaia, che in questi giorni ha messo il veto ai petrolieri perché le piattaforme marine distruggerebbero il turismo rivierasco (che vale 17 miliardi). Sarà vero? Viene da chiedersi come mai l’Emilia Romagna, con 41 unità offshore, ha visto aumentare le bandiere blu assegnate alle sue spiagge dalla Foundation for Environmental Education la scorsa settimana. L’Abruzzo ha invece perso quattro bandierine, ma ne ha conservate dieci tra cui una proprio a Vasto dove in prossimità della costa ci sono otto piattaforme e una nave appoggio. Ora ci si interroga se i croati arriveranno per primi ad approfittare del gas adriatico. Non è scontato ma possibile, visto che nel 2009 la parte italiana di una piattaforma sulla linea di confine è entrata a regime nove mesi dopo di quella croata per impedimenti burocratici. Sono questi cavilli che da sei anni bloccano la produzione nel sito abruzzese di Ombrina dove la Mediterranean Oil&Gas, operatore quotato a Londra, ha già bruciato 25 milioni di euro a causa dei ritardi generati da governo ed enti locali. Alla vigilia del bilaterale Roma-Londra del luglio scorso, il caso fece inorridire il quotidiano britannico Times che paragonò l’Italia ad alcune “regioni africane o sudamericane” per quanto è “rischioso” investire qui.
FQ. di Alberto Brambilla – @Al_Brambilla