L’ottimista fuor d'acqua. L’economista Fortis dice
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che non c’è da disperarsi per un pil in lieve calo nel primo trimestre.
I segni “più” sottovalutati, i media e la politica che si autoflagellano troppo, i cittadini col tic della rottamazione facile
“Una frenata che non porta nuova recessione”, s’intitolava ieri l’editoriale dell’economista Marco Fortis sulla prima pagina del Messaggero. Un modo quantomeno controcorrente per raccontare l’inatteso calo del pil italiano nel primo trimestre del 2014 (meno 0,1 dall’ultimo trimestre del 2013). “Facili illusioni sulla crescita”, editorialeggiava invece il Corriere della Sera; “Manovra-bis più vicina”, ammoniva Repubblica. Scusi professor Fortis, se dei pessimisti si dice che siano soltanto degli ottimisti ben informati, di lei cosa si dovrebbe pensare? “Per esempio che io viva nel paese dei pessimisti disinformati – dice al Foglio il vicepresidente della Fondazione Edison e docente all’Università Cattolica di Milano – O anche nel paese che antepone lo scontro tra Guelfi e Ghibellini alla difesa dell’interesse nazionale”. Successe già tra 2011 e 2012, quando la crisi tornò a suonare per la seconda volta alle porte del paese dopo il 2009: “In quei due anni abbiamo fatto fronte, meglio di molti altri paesi europei, a un deflusso massiccio di investitori esteri dai titoli del nostro debito pubblico”. Contando che circa 100 miliardi di nostri titoli li acquistò la Banca centrale europea per puntellarci, “possiamo stimare che dall’estate 2011 al 2012 siamo stati privati di 230 miliardi di investimenti”. Pagammo il fatto – ragiona Fortis – di “continuare a giocare secondo le regole del calcio, mentre la crisi aveva spinto gli altri a giocare a rugby. Molti paesi tentarono di tappare buchi domestici, scavati dal debito pubblico o privato, facendo rimpatriare capitali da altri paesi”. Noi offrimmo il fianco: “Da paese reoconfesso e fesso, abbiamo fatto di tutto per apparire simili all’Argentina pre-default, poi abbiamo messo in difficoltà un ministro dell’Economia che teneva i conti in ordine come Tremonti”. Perciò gli investitori, non solo internazionali, hanno abbandonato il nostro debito. “Il nostro era l’unico paese abbastanza grande da essere utilmente ‘spolpato’. E comunque abbiamo sopportato tutto ciò”. Ci siamo riusciti, dice Fortis, anche perché la solita tendenza alla “autoflagellazione” ci aveva fatto dimenticare che per anni il nostro sviluppo era stato “più sano” di quello di altri paesi: “Magari meno roboante in termini di tasso di crescita, ma per esempio non fondato sul debito, pubblico o privato che fosse”. Il debito pubblico italiano in verità è da record: “Ma se per 21 degli ultimi 22 anni, governo Berlusconi o Prodi che fosse, abbiamo registrato un avanzo primario”, e quindi le uscite statali sono state inferiori alle entrate al netto degli interessi sul debito, “com’è possibile che d’un tratto diventiamo inaffidabili e ci meritiamo uno spread tanto ampio?”. Poi c’è la “ricchezza finanziaria delle famiglie italiane” che avrebbe dovuto garantire la nostra solidità: “2.990 miliardi nel 2007, quando quella tedesca si fermava a 2.900. Oggi l’Italia è scesa a 2.700, la Germania è salita a 3.200”. Infine, “un paese con 130 miliardi di dollari di surplus commerciale manifatturiero può davvero non essere competitivo? Dopo Cina, Germania, Giappone e Corea del sud, siamo il quinto paese al mondo per avanzo della bilancia commerciale manifatturiera, grazie a imprese eroiche”. Giornali e politica “avrebbero dovuto saper comunicare tutto ciò a Bruxelles”, invece negli uffici delle agenzie di rating e ai tavoli dei vertici internazionali ha prevalso “il fatto che le nostre élite, mediatiche e politiche, s’atteggiassero per ragioni di politica interna a indignati speciali e permanenti”.
Ora, secondo il docente della Cattolica, “rischiamo di nuovo. Questa volta terrorizzando i cittadini al punto che preferiranno risparmiare gli 80 euro invece che spenderli e rilanciare i consumi. Dimenticandoci che cresciamo impercettibilmente meno di paesi che hanno avuto in precedenza un crollo peggiore del nostro, come la Grecia, o di paesi che si permettono un deficit pubblico molto maggiore del nostro, come la Francia”. Alla vigilia delle elezioni europee, “con intellettuali ed elettori tentati dal populismo, sarà difficile seppellire le asce di guerra. Le stesse con cui, dopo averli elogiati, abbiamo in rapida successione assalito Monti, Letta… Faremo lo stesso con Renzi? Resteremmo un paese ridicolo”, dice Fortis. Pacificazione a parte, i numeri su pil e disoccupazione restano impietosi: “Non dico che non si debba fare nulla. Ma il governo già aveva detto che il contributo più forte alla crescita nel 2014 sarebbe arrivato nel secondo semestre. E la disoccupazione resterà alta in tutta Europa per un decennio. Tagliando 30 miliardi di spesa pubblica in maniera permanente e mantenendo il pareggio di bilancio, basta una crescita di mezzo punto di pil all’anno per far scendere il debito. A patto di non essere tentati di rimettere subito tutto in discussione, compreso il fatto che il governo stia utilmente infrangendo alcuni tabù come i superstipendi pubblici”.
di Marco Valerio Lo Prete – @marcovaleriolp, 17.5.2014