Il divorzio quarant’anni dopo:

rifarsi una famiglia e disfare la famiglia

Quaranta anni fa abbiamo votato contro l’abrogazione del divorzio in Italia (12 e 13 maggio 1974). La battaglia unì il mondo laico (oltre le sue differenze ideologiche). Il divorzismo trionfò costruendo un’opinione pubblica ed elettorale univoca, soddisfatta, compiaciuta, travolgente al di là delle cifre percentuali del “no” e del “sì”, e divise nell’umiliazione il mondo cattolico, che si ritrovò spaccato tra argomenti fanfaniani e democristiani bislacchi (vostra moglie fuggirà con la cameriera) opposti a una cultura contraria all’integralismo, all’ingerenza spirituale su chi fa scelte diverse da quelle della dottrina e del vangelo, come direbbe oggi papa Francesco. Il tutto si presentò come il riscatto del paese cattolico per antonomasia dalla sua arretratezza, in un universo moderno dei diritti e delle garanzie individuali che aveva da decenni largamente ripristinato, nelle forme di un nuovo diritto di famiglia ispirato ai grandi cambiamenti dell’epoca, l’antico ripudio pagano. Ora ci avviamo al divorzio breve, fulmineo, tramite composizione giudiziale tra le parti. E, mogli che fuggono con le cameriere a parte, al matrimonio gay. E oltretutto le questioni di senso, di significato, sono slittate dalla banalità del divorzio alla sinistra complessità della procreazione assistita, ai diritti riproduttivi della donna e della coppia naturalmente infertile (i gay), con l’aborto che diventa diritto di libertà e la produzione dei figli anche in uteri affittati alla bisogna, magari selezionati come à la carte, più lo scarto delle femmine indesiderate o la filosofia della famiglia single, eccetera. Amen.

In quarant’anni il matrimonio è uscito distrutto dal divorzio, e tutto è cambiato. Ce ne facciamo una ragione, certo, ma non sono del tutto sicuro che nell’insieme sia stato un progresso della cultura, della civiltà, dell’umanità. Feci da comunista una campagna intensa e polemica ma di malavoglia; fu per me giovanissimo una guerra di necessità e non per scelta. Intuivo che qualcosa non andava per il verso giusto. E molti anni dopo ho anche capito perché. Non era solo il riflesso di una cultura non liberale, quella in cui ero cresciuto, di un fastidio per questioni che non derivavano la loro sostanza dalla struttura economica della società e che mettevano a rischio il dialogo con la chiesa cattolica, un dialogo di lunga e forte tradizione nel comunismo italiano. La mia malmostosità veniva da un’intuizione allora opaca, poi sempre più chiara: il contrario del matrimonio non è il divorzio, ma il non-matrimonio, la vita celibe, nubile, o la convivenza non santificata da un sacramento religioso o dal suo sostituto laico, il matrimonio di diritto civile.

Il divorzio legale era un modo per corrompere, consumare, deformare il matrimonio in quanto istituzione sociale con un suo senso, una sua autorità non soltanto religiosa, anche secolare, una sua giustificazione che prendeva la forma dalla misericordia, dall’amore come pegno e stabilità vitale, dall’irrevocabilità della fiducia e della solidarietà umana fino alla morte. La spinta decisiva al divorzio era nel potersi “rifare una famiglia”, concetto equivoco come dimostra la storia dell’istituto familiare, anche quella scritta dagli Ardigò, da storici di parte cattolica democratica. La famiglia non se la sono rifatta, l’hanno disfatta, dico, gli anni successivi all’introduzione del divorzio. E non è solo una faccenda statistica, è un dato di fatto educativo, civile, di senso comune. La serialità dell’esperienza è in flagrante e incondizionata contraddizione con la famiglia come dimensione di vita non soltanto affettiva, non occasionale e sentimentale.

Pazienza, direte. Gli uomini e le donne di questo mondo costruiranno qualcosa d’altro da questa chiesa domestica, secondo la definizione del Concilio e le analisi anche molto belle del cardinale Kasper. Lo spero. Il futuro non è alla fine ipotecabile, ma su questa strada della trasformazione dei desideri e dei sentimenti in diritti, dell’abbattimento degli interdetti vitali, e del soggettivismo senza senso, in questi quarant’anni siamo andati molto avanti. Non dico che siamo sull’orlo di un abisso, malgrado certi segnali di cronaca del contemporaneo suggeriscano toni da profeta di sventura, ma forse bisognerebbe pensarci su. Quarant’anni dopo.

© - FOGLIO QUOTIDIANO

Giuliano Ferrara

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