Colossi dell’industria europea in cerca di sponde

Americane. Piano quinquennale

Marchionne, sfuggito all’abbraccio europeo, ricomincia da Detroit. A Fiat è andata bene. Hollande frena la francese Alstom

Sergio Marchionne non è ancora così popolare da poter vendere t-shirt, hamburger o altri gadget che sono andati a ruba tra i soci di Warren Buffett convenuti nello scorso fine settimana all’assemblea di Berkshire Hathaway. Ma l’atmosfera che accoglierà l’amministratore delegato di Fiat-Chrysler alle 8 e trenta di stamane, ora di Detroit (le 14 e trenta italiane) nell’auditorium Chrysler di Auburn Mills, dopo il Pentagono l’edificio più grande d’America, ricorderà, se non altro nelle dimensioni, lo spirito delle grandi adunate: duecento analisti di Wall Street e della City, centinaia di giornalisti, un numero imprecisato di sindacalisti statunitensi, brasiliani e di casa nostra (esclusi, almeno in via ufficiale, quelli della Cgil). Tutti a Detroit, insomma, per il primo “Fca Investor Day”, ovvero dieci ore tra presentazione, conferenza stampa, incontro con gli analisti e interviste in cui il manager con il maglioncino blu svelerà obiettivi e (qualche) segreto del nuovo Big dell’auto. Una giornata all’americana che farà arricciare il naso a qualche snob radical, pseudo nostalgico dello stile di Gianni Agnelli. Ma che all’Avvocato sarebbe piaciuta assai. Fu lui, alla fine degli anni Novanta, a non dare retta – fatto quasi inedito – al consiglio di Enrico Cuccia di accettare l’offerta tedesca di Daimler per Fiat. Tra i tedeschi e l’America, fu la sua risposta, scelgo l’America. Allora, ai tempi dell’affare Gm, l’operazione non andò come sperato ma, pochi anni dopo, Marchionne si trovò a battere, sia per scelta che per necessità, la stessa rotta: la Fiat, sull’orlo del tracollo, non trovò alcuna solidarietà in terra europea. La francese Peugeot lasciò cadere l’ipotesi di un’alleanza; frau Merkel sbatté la porta in faccia di fronte all’ipotesi di un accordo con Opel. I burocrati di Bruxelles, così zelanti nel far rispettare regole e pandette, fecero infine orecchie da mercante di fronte alla proposta di pilotare un piano di tagli alle eccedenze produttive di tutto il mondo a quattro ruote. E’ in questa cornice che il manager italocanadese Marchionne giocò la carta Chrysler, la derelitta di Detroit ripudiata dal socio tedesco. Allora, anno 2009, erano ben pochi a puntare un dollaro (seppur bucato) sulla scommessa italiana in Chrysler. Però Marchionne, ammette Automotive News, ha rispettato alla virgola le promesse fatte alla corporate America.

E così nessuno prende sotto gamba le scommesse che il ceo del gruppo Detroit-Torino si accinge a lanciare dal palco: 6 milioni di auto all’anno tra Europa, Americhe e Asia entro il 2018; il raddoppio delle vendite di Jeep, uno dei marchi prediletti, fino a 1,5 milioni di pezzi tra Cina e America latina, senza dimenticare Suv e Renegades sfornati dalle fabbriche italiane; il decollo, soprattutto, della nuova Alfa, italiana al cento per cento, che affiancherà Maserati e Ferrari nella lotta senza quartiere per strappare ai Big tedeschi il primato nell’auto di lusso.

Un piano a tutto tondo che presenta non poche incognite, a partire dai quattrini necessari per fare una concorrenza seria a tedeschi, giapponesi e, magari, a coreani e cinesi. Sul gruppo Fca, che sta per Fiat Chrysler Automobiles, gravano già oggi dieci miliardi di debiti cui vanno aggiunti almeno altri 9 miliardi per sviluppare un piano Alfa in grado di metter paura a Bmw o Audi. Come farà Marchionne a dotarsi delle munizioni necessarie? E’ una delle risposte che gli analisti si attendono oggi dall’ad, scommettendo sulla quotazione di Ferrari o Maserati piuttosto che su un nuovo convertendo, favorito dai tassi bassi sia in euro che in dollari. Nell’attesa vale riflettere sul fatto che, al contrario di quel che pensavano i padri dell’euro, la moneta unica non ha favorito la nascita di campioni europei, nati dall’aggregazione delle imprese del Vecchio continente, in grado di sfidare i concorrenti asiatici o americani. Al contrario, la Germania ha preferito ballare da sola o via acquisizioni, privilegiando i nuovi mercati, Asia in testa. E alle imprese medio-grandi della “periferia d’Europa” spesso non resta, come ai tempi del piano Marshall, che l’amico a stelle e strisce. Come dimostrano gli acquisti del fondo statunitense BlackRock nelle banche italiane o l’attenzione della nordamericana General Electric verso la francese Alstom. Attenzione che per ora sembra però frustrata: ieri infatti il ministro dell’Economia di Parigi, Arnaud Montebourg, ha fatto sapere con una lettera che il governo francese si oppone all’offerta statunitense che prevede “la sola acquisizione della divisione energia di Alstom”. Meglio la tedesca Siemens o addirittura un nulla di fatto?

FQ. di Ugo Bertone, 6 maggio 2014 - ore 10:19

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