Povera classe media. Un’analisi del NYT sulla middle class
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degli Stati Uniti superata anche dai canadesi si aggiunge al coro
sulle disuguaglianze, ma trascura alcune ragioni strutturali. E non cita Obama, il presidente della redistribuzione
Il progressivo impoverimento della classe media americana rispetto a quella degli altri paesi occidentali è l’oggetto della prima analisi di Upshot, il progetto di data journalism lanciato alcuni giorni fa dal New York Times. La ricerca è basata sui dati del Luxembourg Income Study, il centro che recentemente ha assoldato fra i collaboratori anche il premio Nobel Paul Krugman, e tende a dimostrare che dopo decenni in cui il reddito mediano (cioè che si riferisce alla sezione centrale della forchetta dei redditi) degli americani superava in maniera stabile quello degli altri paesi industrializzati, ora la tendenza si è invertita, tanto che dal 2000 al 2010 il Canada ha superato gli Stati Uniti in questa speciale classifica elaborata per diagnosticare lo stato di salute della classe media. Nel giro di dieci anni la middle class canadese e quella britannica hanno visto crescere il reddito mediano del 20 per cento, mentre gli Stati Uniti sono rimasti sostanzialmente fermi attorno al reddito di 18.700 dollari netti l’anno, o 75 mila dollari se si considera una famiglia di quattro membri.
Gli americani più ricchi “hanno staccato i loro omologhi globali” mentre i poveri in Europa “guadagnano di più rispetto ai poveri in America”, spiega il New York Times, osservando che negli ultimi anni canadesi e britannici, ma anche olandesi, svedesi e tedeschi, hanno ricevuto aumenti di stipendio decisamente più alti rispetto a quanto accaduto ai loro colleghi americani, che sono sostanzialmente rimasti fermi. Gli analisti di Upshot agitano l’immobilismo della middle class americana per rinfocolare il tema delle diseguaglianze economiche, che dai saggi di Thomas Piketty sul capitale logorato del Ventunesimo secolo alla “stagnazione secolare” di Lawrence Summers fino alle più note tirate di Joe Stiglitz e ai suoi discendenti politici, vedi il sindaco di New York, Bill de Blasio, raccontano di un’America in cui i ricchi sono sempre più ricchi, i poveri sempre più poveri e quelli in mezzo inevitabilmente trascinati verso il basso. Tutto questo, dicono, è il frutto di un insieme di concause: le tasse troppo clementi verso i ricchi, il salario minimo troppo basso (frutto della tradizionale debolezza dei sindacati), il welfare state quasi inesistente e, più in generale, un sistema di redistribuzione della ricchezza che non funziona. Nel grande racconto della sperequazione i compensi per i top manager americani (“sostanzialmente più alti rispetto a quelli di altri paesi”) diventano il simbolo più evocativo di un’economia che in tempi di recessione e stagnazione cronica continua a mettere nelle tasche dell’1 per cento bonus sproporzionati rispetto all’andamento dell’economia. Il risultato è un paese diviso in due grande placche economiche e sociali che navigano in direzioni opposte. Altra spia della diseguaglianza montante è il reddito dei giovani americani (fra i 16 e i 24 anni), più vicino a quello di italiani e spagnoli rispetto a canadesi, giapponesi, australiani e scandinavi.
Il New York Times inquadra con precisione un fenomeno estremamente rilevante e lo spiega adducendo motivazioni fondamentalmente politiche: la crisi della classe media è il frutto naturale di un sistema socialmente iniquo, orientato alla manutenzione dello schema dove l’1 per cento prospera sulle spalle del 99 per cento sempre più povero. Ma ci sono anche altri fattori che l’analisi omette. Doug Holtz-Eakin, ex capo dell’ufficio Budget del Congresso, dice piuttosto che il relativo impoverimento americano è in realtà un arricchimento della classe media degli altri paesi industrializzati, che “si stanno riallineando” ai livelli americani dopo decenni di dominazione economica degli Stati Uniti. Alle ragioni storiche Holtz-Eakin aggiunge anche le scelte politiche di Obama, che negli ultimi sei anni non hanno aiutato “gli americani che hanno un lavoro ad aumentare il loro potere d’acquisto”. Mentre i pari grado canadesi crescevano, a Washington “si parlava soltanto di aumenti fiscali e Obamacare”. Nemmeno le ragioni strutturali addotte da un altro osservatore della crisi della middle class, l’economista libertario Tyler Cowen, trovano spazio nell’analisi del New York Times. Secondo Cowen, autore del saggio “Average is Over”, i progressi tecnologici hanno eroso i settori di produzione che tradizionalmente sostenevano la classe media, aprendo uno scenario in cui i “nuovi poveri” hanno però la possibilità di reinventarsi grazie alla massiccia introduzione di beni e servizi a basso costo. Nulla a che vedere, insomma, con la rapace prepotenza dei ricchi.
© - FOGLIO QUOTIDIANO di Mattia Ferraresi – @mattiaferraresi, 24 aprile 2014 - ore 06:59