Il governo Renzi incrina lo storico patto di non
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belligeranza tra sinistra d’antan e banchieri
Sono lontani i tempi in cui i più importanti banchieri del paese (da Alessandro Profumo, ex ad di Unicredit oggi in Mps, a Corrado Passera, ex ad di Intesa) si mettevano in fila per votare alle primarie di Romano Prodi e poi a quelle di Walter Veltroni, qualcosa si è inceppato nell’amichevole rapporto che legava la sinistra al salotto finanziario italiano. D’altronde in un periodo in cui si fa fatica a recuperare risorse e in cui il mondo della finanza viene considerato, a torto o a ragione, come uno dei maggiori responsabili della crisi economica, le banche sono l’obiettivo più adeguato per chi, come Renzi, è a caccia sia di denari sia di consensi. La fetta più grande dei 6,9 miliardi necessari a coprire il bonus di 80 euro mensili arriva dagli istituti di credito, che dovranno versare circa 1,8 miliardi attraverso l’aumento della tassazione dal 12 al 26 per cento sulle rivalutazioni delle quote detenute nella Banca d’Italia.
Un’operazione obbligata, d’aggiornamento all’attuale patrimonio dell’Istituto centrale, che però, in quanto tassata da Renzi – più di quanto promesso dal suo predecessore Enrico Letta – ha destabilizzato l’Associazione bancaria italiana (Abi). Il presidente Antonio Patuelli parla di una forte penalizzazione per le banche italiane che vedono ridotto il beneficio patrimoniale della rivalutazione e che avevano già subìto l’aumento dell’aliquota Ires. Il tutto mentre la Banca d’Italia pubblica rapporti allarmanti sulle chiusure delle filiali in arrivo. Ma se l’Abi lamenta l’abnorme pressione fiscale, il governo incalza. Già il vicepremier Delrio intimò alle banche di non usare l’alibi del fisco per stringere ulteriormente i rubinetti del credito a imprese e famiglie. E ieri, il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, ha rincarato la dose dicendo che “la tassazione sulla rivalutazione delle quote in Bankitalia lascia alle banche in sede patrimoniale un po’ meno di quanto previsto ma sono convinto che le banche faranno il loro lavoro, che è dare credito all’economia, cosa che è nel loro interesse, perché così fanno profitti e se l’economia riprende anche le banche ne beneficiano”.
D’altronde l’ex capo economista dell’Ocse, Padoan, è puntellato da autorevoli studi internazionali che flagellano la pigrizia bancaria in Europa e in Italia. E’ il Fondo monetario internazionale a sostenere, nell’outlook sull’economia mondiale di aprile, che la ripresa del credito in Italia (così come gli altri paesi dell’Euromed) potrebbe generare a cascata una crescita del 2 per cento del pil (non un più striminzito 0,8 previsto per quest’anno). In questo scontro per certi versi inedito tra sinistra di governo ed establishment bancario non solo si nota l’assenza di subalternità, in qualsiasi forma, ai desiderata dell’Abi (derubricati a mugugni), ma si ravvisa pure l’esigenza impellente del premier di mantenere fede alla promessa elettorale (“se il 27 maggio i soldi non arrivano in busta paga vuol dire che sono un buffone”). E la strada più indolore per raggiungere tale obiettivo (almeno per il 2014 visto che la copertura è una tantum) passa dalle banche e va a toccare anche un tema (strumentale) da campagna elettorale, cioè l’attacco alle banche protagoniste delle “operazioni di sistema”, al credito facile per pochi (selezionati) e difficile per la moltitudine, al “capitalismo di relazione”, all’intreccio tra partiti e fondazioni e a quella cinghia di trasmissione tra sinistra e banche che attirava i banchieri alle primarie e spingeva i banchieri “rossi” in alto, fino ai vertici dell’Abi, come fu per Giuseppe Mussari, l’ormai ex dominus del Monte dei Paschi.
E’ vero che Renzi ha costruito la sua immagine anche circondandosi di nomi di successo del nostro capitalismo, dal manager Davide Serra all’imprenditore di Tod’s Diego Della Valle, da Vittorio Colao, capo di Vodafone, al fondatore di Eataly Oscar Farinetti, ma si è trattato perlopiù di personaggi considerati outsider, estranei al vecchio “salotto buono” della finanza. Un tradizionale segretario del Partito democratico, come Pier Luigi Bersani, mai si sarebbe sognato di dare del “bandito” a un banchiere salottiero o a un vecchio campione dell’establishment, come invece ha fatto riferendosi a Serra e ai suoi presunti profitti scarsamente tassati. Ancora nel 2007, scrivendo della fusione tra Unicredit e Capitalia che Massimo D’Alema aveva benedetto in colloqui privati con Giovanni Bazoli, il non ostile Massimo Giannini, vicedirettore di Repubblica, segnalava: “Non ti spiegheresti altrimenti le parole compiaciute di uno dei pochi ‘dalemiani’ autorizzati a definirsi tali, mentre si gusta una spigola al sale in un noto ristorante romano: ‘Ormai siamo nel Partito democratico, giusto? E allora lo possiamo dire: finalmente adesso abbiamo due banche’”.
Tuttavia la retorica rottamatrice renziana non ha riguardato solo la classe politica, ma anche l’élite capitalista italiana, i veri o presunti “poteri forti”: “Se i banchieri non vengono alla primarie io sono contento – dichiarò Renzi nella campagna delle ultime primarie – Facciano il loro lavoro di banchieri, cioè diano i soldi in prestito agli artigiani, facciano bene il loro mestiere”. Più o meno lo stesso concetto ribadito ieri dal ministro Padoan.
L’aumento della tassazione sugli istituti di credito per ora non risolve alcun problema, se non quello di cassa del governo almeno per quest’anno, ma può segnare la fine dello storico rapporto privilegiato, caratterizzato da un tacito accordo di non belligeranza, tra sinistra e banchieri. Questa rottamazione era latente, ora sta emergendo. Renzi dopo avere ridimensionato la concertazione sindacal-confindustriale, infilzato alcuni privilegi del settore pubblico a cominciare dai vertici della burocrazia giudiziaria, ha insomma premuto anche il tasto “credito”.
FQ. 23 aprile 2014 - ore 06:59