Europa, eppur si muove. Stabile l’economia reale,
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calma la finanza Perché i gufi d’un tratto non sono maggioranza
L’altro guizzo di Draghi, il quid di Renzi e Valls
Un pessimista – si dice – è un ottimista che si è informato. Sarà questo il caso dell’Economist, settimanale inglese che nel suo numero in edicola mette in guardia dalla calma apparente e addirittura “dall’incredibile ottimismo” che sono tornati ad aleggiare nell’Eurozona: “Non impazzite di gioia per la periferia”, s’intitola uno degli editoriali. Svolgimento: “Le economie dell’Europa meridionale sono in condizioni peggiori di quelle suggerite dal calo dei rendimenti sui bond sovrani”. D’altronde numerosi osservatori, soprattutto anglosassoni, non si lasciano impressionare da eventi che a queste latitudini appaiono a priva vista dirompenti, come il fatto che la Grecia sia tornata, per la prima volta dal 2010, a convincere gli investitori internazionali privati a prestarle dei soldi. L’asta di Sirtaki bond quinquennali, lo scorso 10 aprile, ha portato 3 miliardi di euro nelle casse di Atene, a un tasso d’interesse inferiore al 5 per cento (alto in assoluto ma non rispetto a un bond triennale greco cui, nel 2011, erano legati tassi superiori al 100 per cento). Molti, soprattutto negli Stati Uniti, sono scettici: non siamo ancora al punto in cui la crisi finisce proprio nel paese dove era cominciata. L’Eurozona, secondo questo punto di vista, si muoverebbe piuttosto in avanscoperta – per conto di tutto il mondo occidentale – nell’èra della “stagnazione secolare”, come la chiama Lawrence Summers, ex segretario al Tesoro della Casa Bianca. Tassi d’interesse bassi, crescita stagnante o poco più, demografia calante e quindi debiti pubblici insormontabili sulle spalle. Non esattamente uno scenario per cui mostrare “remarkable enthusiasm”.
Poi però, a voler fare un po’ di pessimismo comparato, si potrebbe pure osservare che quasi un anno fa l’Economist era ancora più disfattista sull’Europa: “The sleepwalkers”, era il titolo di una copertina del maggio 2013. Sotto, un fotomontaggio con i leader europei uno accanto all’altro, tutti “sonnambuli” sull’orlo di un burrone. Un anno dopo, ancora niente burrone. Anzi: nel 2013 il pil dell’Eurozona è sceso dello 0,4 per cento, ma nel 2014 ci si attende un aumento dell’1,2 per cento. “L’economia che smette di decrescere è un dato di fatto non da poco – dice al Foglio l’economista Giorgio Arfaras – Se un altro choc finanziario fosse imminente, poi, lo percepiremmo anticipatamente da un rialzo dei rendimenti sui bond sovrani e da un calo del cambio dell’euro. Invece per ora l’Europa è anche la destinazione di un afflusso di capitali dai paesi emergenti percepiti nuovamente come instabili”. Ieri la Banca d’Italia, nel suo bollettino mensile, scriveva che proprio questo flusso un po’ fortuito di capitali, unito a fattori più stabili come il “venir meno dei timori di disgregazione dell’Unione monetaria” e “i progressi nell’aggiustamento delle economie nazionali”, ha fatto sì che “in Italia i rendimenti dei Btp decennali hanno toccato in termini nominali il livello più basso dalla loro introduzione nel 1991”. Un interesse del 3,11 per cento sui nostri titoli decennali non sarà la panacea per un debito che pesa come il 130 per cento del pil, ma un sollievo sì.
La politica torna “dinamica” La calma finanziaria, complice le rassicuranti garanzie offerte dalla Banca centrale europea presieduta da Mario Draghi, è per il momento acquisita. Ma non è tutto. A marzo, in Europa, sono state per esempio immatricolate 1.449.148 automobili, in crescita del 10,6 per cento rispetto a un anno fa. E’ il settimo mese consecutivo in rialzo, in un settore con 3 milioni di occupati, il 10 per cento di tutti gli impiegati nella manifattura. Quest’anno poi, nei paesi che condividono la moneta unica, inizierà a scendere – per la prima volta dall’inizio della crisi – anche il tasso di disoccupazione, al 12 per cento, un cambiamento di un solo decimale ma nella direzione giusta.
Ma non è nemmeno questa la “nuova dinamica” di cui si vocifera con più insistenza a Bruxelles. Alcuni euroburocrati, scriveva ieri il Financial Times, sarebbero “upset”, irritati, per la decisione formale dell’Italia di rimandare al 2016 (dal 2015) il raggiungimento del pareggio di bilancio strutturale.
L’irritazione di alcuni, però, si accompagna alla presa d’atto di altri nella Commissione Ue. Il governo Renzi, tra una rassicurazione ad Angela Merkel e un primo (storico) taglio alle tasse, apre infatti a un cambio di passo rispetto ai precedenti esecutivi italiani. All’algida tecnocrazia brussellese, Roma propone adesso uno scambio che sarà difficile rifiutare in toto: riforme nazionali a fronte di pragmatismo europeo. E’ la “nuova dinamica” che il diligente Enrico Letta non era riuscito ad attivare.
Matteo Renzi, quello che sai-che-ridere-a-fianco-della-Merkel, non sembra muoversi da solo. Pier Carlo Padoan, ministro delle Finanze e figura di garanzia del governo del Rottamatore, ieri in conferenza stampa ha dichiarato: “Con questi provvedimenti – meno spesa pubblica, meno Irpef e meno Irap, ndr – l’economia si rimetterà a crescere in un sentiero che sarà il più alto degli ultimi 20 anni”. Che sia Padoan ad avvertire i gufi (cit.), poi, conta doppio. Il ministro, notava ieri lo storico dell’economia Giulio Sapelli sul Messaggero, “è un economista che si è formato non tanto nelle istituzioni europee, ma nelle istituzioni globali dell’economia globale, il quale è quindi consapevole dei vincoli in cui si è chiamati ad agire in Europa, ma che a questi ultimi non è subalterno”. Ecco quindi un altro solido contributo allo “strappo italiano alla camicia di forza dell’Ue”, sempre quello sul pareggio di bilancio, che può essere addirittura “l’inizio di un percorso storico in grado di portare a una nuova configurazione dell’Europa”.
E se l’asse dei paesi latini per controbilanciare i dettami nordeuropei è difficile a farsi (non foss’altro perché lo spread tra titoli di stato francesi e omologhi tedeschi non si è ancora materializzato), tuttavia è indubbio che la “nuova dinamica” scrutata dalla Commissione sembra essersi messa in moto anche in Francia. Il nuovo governo di Manuel Valls sbandiera le parole chiave del socialismo europeo con minore frequenza di quanto non facesse il precedente esecutivo appena rottamato per manifesta insipienza: il nuovo primo ministro preferisce presentare tagli alla spesa pubblica non concordati con le parti sociali, avanzare sulla riduzione delle tasse, e poi esortare anch’esso l’Ue a rivedere certe rigidità. Al punto che ieri il Wall Street Journal dedicava un reportage alle nuove esplicite pressioni in arrivo da Parigi alla volta di Francoforte: la Bce deve diventare interventista come la Fed, ripetono in coro i nuovi ministri di Valls. Uscite che non avranno effetti pratici, assicurano le fonti anonime sentite dal Wsj e vicine ai banchieri centrali. Però la nuova dinamica politica c’è.
Infine, e soprattutto, rispetto al fotomontaggio sui leader europei sonnambuli pubblicato un anno fa dall’Economist, è cambiato un altro “dettaglio”. Draghi, il presidente della Bce, pare di nuovo pronto a uscire dal gruppo destinato a cadere nel precipizio. Nel 2012, dopo aver triangolato abilmente con Berlino, Roma e Parigi, il bamchiere si disse pronto a fare “tutto il necessario” per salvare l’euro, e ciò bastò per cacciare Lady Spread dall’orizzonte. Da settimane Draghi è tornato a essere esplicito, sempre più esplicito, sulle misure non convenzionali che la Bce è pronta ad attivare contro il deflagrare della deflazione. Per invertire l’eventuale caduta dei prezzi in terreno negativo, con annessa impennata dei tassi d’interesse reali e conseguente appesantimento dei debiti pubblici, la Bce ora pronuncia apertamente le parole “Quantitative easing”, l’allentamento monetario inventato e praticato dalla Fed nei pragmatici Stati Uniti. Tutto starà, ancora una volta, a non diventare un po’ anglosassoni troppo tardi.
FQ. 19 aprile 2014 - ore 06:59