Storia di una donna. Françoise Giroud ci ricorda
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che non c’è un’unica strada per essere libere, non esiste
la formula aritmetica del femminismo prêt-à-porter alla conquista del mondo
Quando la cara amica Alix ottenne il permesso di frugare negli scatoloni che Françoise Giroud aveva regalato a un ente, guardandoli con soddisfazione uscire per sempre dal suo appartamento insieme al passato, trovò in mezzo alle lettere, agli articoli, ai quaderni di una vita intera di giornalista, scrittrice e attivista politica, la brutta copia di una lettera scritta all’uomo che l’aveva resa muta di dolore: Jean-Jacques Servan-Schreiber, il giornalista con cui Françoise aveva fondato l’Express nel 1953, e che adesso, 1960, l’aveva lasciata per un’altra e cacciata dal giornale che avevano creato insieme, sospettandola di un gesto vile che lei giurò di non aver mai compiuto. Era una lettera di dolore, di quelle terapeutiche che gli psicanalisti consigliano di scrivere quando non si riesce a dire a voce le cose importanti, quando il fallimento e l’ingiustizia sembrano troppo grandi per riuscire ad aprire la bocca senza venire schiacciati. Quando, soprattutto, non si può più contare sull’amore di chi ci guarda adesso con preoccupato fastidio, e dice soltanto “no”, e vuole scappare, correre nella sua nuova vita, nel tepore di una leggerezza nuova, e non restare a guardare quella povera cosa infranta che ancora tende le braccia. Era il 1960 e Françoise Giroud, nata nel 1916, padre iracheno e madre greca, era arrivata molto in alto a Parigi: aveva fondato Elle e poi l’Express, giornale di battaglie civili, era una donna importante e rispettata, lavorava con passione sedici ore al giorno, aveva due figli, era un modello elitario di modernità da imitare. Prima che tutto andasse in pezzi, a maggio. Quando Jean-Jacques la lasciò (per una donna molto più giovane che poteva dargli figli), Françoise tentò di uccidersi con i sonniferi. Si era chiusa in camera a doppia mandata, ma sfondarono la parete e la riacciuffarono da un coma profondo durato tre giorni. In ospedale tentò di nuovo, goffamente, di uccidersi con un coltello da tavola, poi si rassegnò alla vita (e tornò dopo un anno alla direzione dell’Express, poi fu due volte ministro con Jacques Chirac e con Raymond Barre). A poco a poco, faticosamente, rientrò in sé. Cominciò a scrivere quella lettera all’uomo che aveva scelto “una separazione intollerabile”, ma subito, sul retro dello stesso quaderno, cambiò idea e scrisse a mano questo titolo: “Storia di una donna libera”. Françoise Giroud per tre mesi, fino a settembre, raccontò di sé, in modo selvaggio, pieno di orgoglio e di dolore, pieno di passione, ma anche di disprezzo, per il suo ruolo nel mondo (“suvvia, era tempo di finirla con quella melensa donnetta che ero diventata”). Questa autobiografia ritrovata cinquant’anni dopo in una specie di bunker umido e semibuio è stata pubblicata l’anno scorso in Francia da Gallimard, e ora da Neri Pozza.
Comincia così: “Io sono una donna libera. Sono stata, e quindi posso essere, una donna felice… Esiste qualcosa di più raro al mondo?”. Non è un manifesto femminista, non è il reportage trionfale di una donna che ha cominciato a lavorare a quattordici anni, ha conquistato tutto nel secolo scorso e ha lottato per non farselo portare via, è un racconto complesso, delicato, doloroso, che in uno di questi sempre nuovi e sempre più cinici manuali del modernissimo femminismo americano verrebbe considerato lo sbaglio perfetto, l’esempio commiserevole di mancata organizzazione, non riuscita conciliazione di vita privata e folgorante carriera.
Le donne alfa, la fine degli uomini, facciamoci avanti, il lavoro e la voglia di farcela, come istruire una tata, come istruire un marito, il matrimonio paritario, le regole per chiedere un aumento, come spalancare le porte, come fissare gli obiettivi e raggiungerli, quando decidere di avere un figlio, arrivare in cima e piacere agli altri: è un mondo di regole, di programmazione serrata, è una piccola prigione travestita da libertà, in cui signore di successo insegnano ad avere successo, a pretendere di più, a sparare alto, a dare battaglia. Sheryl Sandberg, ceo di Facebook, Tina Brown, direttrice di Newsweek e del Daily Beast, Marissa Mayer, di Yahoo, Alison Wolf, autrice inglese di “Donne Alfa”, appena pubblicato in Italia da Garzanti, Arianna Huffington, hanno trasformato, con le migliori intenzioni, la libertà femminile in una formula matematica, un grafico che sale verso l’alto: tacchi alti su cui spiccare nella folla, alto livello di leadership femminile, alta capacità di polverizzare gli ostacoli e non farsi mollare dalla baby sitter sul più bello. Leggendo tutti questi ordinatissimi manifesti di un nuovo femminismo alla conquista del mondo e delle poltrone, all’inizio si viene colti da ammirazione (Sheryl Sandberg è per suo merito una delle donne più ricche del mondo, quarantenne con famiglia, ha ottenuto l’asilo nido in azienda, il parcheggio per le donne incinte, ha imposto i suoi orari, ha scelto il marito giusto, “abbiate storie con tutti i maschi possibili: i bad boys, i cool boys, i Peter Pan, ma non sposateli mai”), poi però, mano a mano che le regole aumentano, le quote rosa si impongono, le statistiche raccontano che questo è già molto più del decennio dell’Io, è l’età dell’oro per le signore importanti che invocano ancora un cambiamento sociale completo, una specie di assoluta presa del potere costellata di decaloghi di comportamento (si può piangere al lavoro, ma solo se si è arrivate abbastanza in alto senza farlo) e perfino di abbigliamento, allora l’ammirazione e la curiosità diventano mani che stringono la gola, provocano un senso di soffocamento ideologico, lo stesso che si provava davanti ai manuali della perfetta moglie degli anni Cinquanta, bravissima nel ricevere gli ospiti, preparare il pasticcio di carne con i fegatini senza rovinarsi lo smalto e asciugarsi gli occhi di nascosto, raccontando che non sono vere lacrime, ha solo affettato una cipolla. E’ davvero così poco? Basta compilare una tabella degli obiettivi, sorridere, essere spietate, commuoversi alla recita di fine anno della bambina e intanto rispondere alle email, fingere che sia entrato un po’ di caos sentimentale in una vita perfetta, algebrica, con la scritta sullo zerbino davanti alla porta: lean in, facciamoci avanti. Ma il catalogo non è sempre questo, e Alison Wolf ha spiegato, nel libro sulle donne Alfa, l’immagine lucente di tutte queste professioniste, donne d’affari, star della velocità, super laureate in arrampicata veloce, l’élite femminile in crescita (è una buona notizia): “Oggi somigliano all’uomo più che in qualsiasi altro momento della storia”. E’ dal caos che si sono allontanate, dalla differenza, dall’inciampo. Bravissime a vincere, ma anche a trasfomarsi in giudici spietati delle altre: troppo timide, troppo disordinate, troppo dipendenti da un uomo, poco dignitose, poco serie, non abbastanza pronte a lanciarsi sul razzo di una nuova occasione, troppo botox, troppo poco, non abbastanza scaltre, non abbastanza convinte.
Secondo questo nuovo tipo di femminismo prêt-à-porter, infilato dentro libri colorati divisi per capitoli che promettono di risolvere ogni aspetto dell’esistenza, ogni battaglia per un matrimonio paritario (come se attorno a una lavastoviglie si decidessero davvero i destini del mondo), secondo questo mondo luccicante di certezze facili e sempre conseguenti le une alle altre, le donne sono un gruppo omogeneo: stessi obiettivi, stesse voluttà. Un po’ Hillary Clinton, un po’ Sara Blakely (la ragazza che è diventata milionaria inventando lo Spanx, le mutande magiche che tolgono una taglia e scompaiono sotto i vestiti), con in mente una forma di gentile eroismo da mostrare, e continue battaglie da combattere.
Con il rischio di diventare paranoiche, vedere alligatori sotto il letto, considerare una discriminazione sessuale anche la foto del presidente del Consiglio con i nuovi ministri donna del governo. Con la paura di accettare un complimento, perché potrebbe essere sessista. Con il terrore che le nostre figlie giochino con le Barbie, perché trasmettono un modello femminile sbagliato. Ogni momento, ogni sconforto, diventa una bandierina da piantare sulla strada per la libertà, ma è una libertà a modello unico, quindi non così libera. Se si supera il numero massimo di minuti consentiti a una donna libera per cucinare, se quella stessa donna libera, come disse una volta Sheryl Sandberg, non alza la mano, non chiede promozioni, non muore dalla voglia di salire sopra il razzo di un nuovo lavoro, se non si comporta da uomo, però gridando al mondo: “Sono una donna”, allora significa che non combatte la stessa guerra, e che ha gettato via la chiave per la felicità.
A Françoise Giroud un’americana pragmatica e convinta del proprio posto nel mondo come Sheryl Sandberg avrebbe detto: riprenditi il tuo giornale, smetti di amare quel tanghero, prendi un bravo avvocato, vai dal parrucchiere, ottieni il telelavoro e chiama una baby sitter per tre sere la settimana, levati quelle occhiaie nere con un po’ di fondotinta. Secondo questi manuali di finto femminismo, niente può davvero distrarci dall’obiettivo principale: essere Alfa, volare su una nuvola guidando una schiacciasassi. Anche per questo l’autobiografia di Françoise Giroud è sconvolgente, perché è la confessione estrema e disarmata che un’unica strada, illuminata, con le bandierine ai lati, con in dotazione la tabella di marcia per percorrerla, non esiste. Non per tutte, almeno. Non c’è nessuna formula aritmetica della libertà: ogni storia è diversa, difforme. “Tuttavia quanto è successo non va considerato per forza una fallimento. Essere libera vuol dire anche accettare di perdere. Il che non toglie nulla a quel che è stato. O a quello che può essere per altri e non per me”. Questo “Storia di una donna libera” è anche la storia di una grande sconfitta, di un lungo momento in cui niente aveva più importanza. Per Françoise Giroud l’avventura di quel giornale battagliero da mandare avanti con il suo compagno di squadra Jean-Jacques era vitale perché vitale era la cosa che li teneva legati stretti. Ma adesso era diverso, lui scompariva altrove e lei gli disse: “A me non piace essere infelice”, e sentì che lui la detestava. Perché per la prima volta la vedeva debole, perché non accettava quelle condizioni (lavorare insieme virilmente e non chidersi più nulla). “Dato che lo opprimevo, rappresentavo un surplus, ero colpevole di esserci, di esistere. Come avevo potuto credere che nel mondo ci fosse un posto anche per me?”. Lei era una donna libera, cioè non plasmata su un modello per forza vincente, si era inventata tutto quello che aveva, andava forte in macchina, sapeva comandare, ma anche obbedire, le piaceva il lusso, ma se ne fregava. Tutto senza calcolo e senza manifesti per una nuova moralità. “La felicità, l’ho ricevuta. L’ho nutrita, l’ho levigata, lucidata, affilata… Ma poi ho dovuto restituirla. Ne stavo abusando. Potrò mai riceverne un’altra? E di quale natura?”. Un anno dopo Françoise Giroud tornò a dirigere l’Express, poi fu nominata due volte ministro, per lo Status delle donne e per la Cultura. Nonostante quel buco nero mai tenuto nascosto, e alla faccia della borghesia parigina che la snobbava. Era andata in pezzi perché “ti manca una sola persona e tutto si spopola”, e a volte succede. Nessun manifesto per la libertà femminile, nessun racconto sulla fine degli uomini, nessuna consolazione sul potere conquistato può dare senso al dolore. “Con quale tensione nervosa, con quale logorio si paga questa doppia esistenza, questa perenne acrobazia verso la quale tende tutta una nuova razza di donne… Bisogna esserci passate per saperlo. Non mi sento di raccomandarla”. Lei la incarnava, la perenne acrobazia, ma non la raccomandava. Era convinta che non esistessero donne migliori o peggiori, ma solo diverse. E quelle diverse da lei, non le disprezzava. E quell’uomo che fuggiva via da lei, e le toglieva tutto quello che aveva costruito, non lo detestava, non era il suo nemico, il suo carnefice, il maschio da combattere. E’ tutta lì, la libertà.
FQ. di Annalena Benini – @annalenabenini, 10 marzo 2014 - ore 00:00