«Quando Fini mi disse che era d’accordo con il Colle»

Laboccetta, intervista

Lewggiamo questa  intervista con spirito critico. Certo, si può anche sospettare un po' di risentimento da parte di Laboccetta nei confronti del suo leader e amico (intendiamo Fini) a cui non ha mai perdonato l'ultima stagione politica, quella delle coltellate alla schiena. Ma alcune testimonianze oggi danno consistenza a quanto si diceva allora sugli obiettivi di Fini e alleanze. No golpe ma  è stato un periodo tormentato per la politica e fatto da uomini con tutti i loro difetti. Opact

L’ex braccio destro: «Gianfranco mi raccontò già nel 2009 di un piano di Napolitano. Con lo strappo del 14 dicembre doveva eliminare Berlusconi. In cambio avrebbe avuto Palazzo Chigi»

«Prima che politici bisogna essere uomini. E Fini non lo è mai stato». Amedeo Laboccetta, per anni vicinissimo all’ex leader di An, tira un respiro profondo, si rigira tra le mani il sigaro che ha estratto dal taschino venti minuti prima, ma senza accenderlo, e ripete lentamente: «Il golpe contro Berlusconi non è cominciato nell’estate del 2011 come scrive Friedman. Ma molto prima, nel 2009. E a muovere i fili furono il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e quello della Camera Gianfranco Fini, con l’aiuto di settori della magistratura e il "placet" di ambienti internazionali». L’ex parlamentare Pdl si ferma un attimo, poi aggiunge: «Fini me lo disse in più circostanze. "Ma tu credi che io porterei avanti un’operazione del genere se non avessi un accordo forte con Napolitano?"».

Meglio partire dall’inizio.

«Il feeling tra Fini e il Colle è antico. Quando nel 2008 Berlusconi diventa premier e il leader di An va alla presidenza della Camera, i rapporti con Napolitano diventano strettissimi. Si sentono al telefono praticamente ogni giorno».

Come fa a saperlo?

«Ho assistito a molte di quelle telefonate».

Era così vicino a Fini?

«Lo conosco da quando militavamo insieme nel Fronte della Gioventù. Quando nasce Carolina, la sua prima figlia con Elisabetta Tulliani, pochi parlamentari sono ammessi nella sua abitazione di Montecitorio. Io, Giulia Bongiorno, Andrea Ronchi. Quando gli chiesi il perché di quei pochi inviti, mi disse che eravamo gli unici di cui si fidava. Al battesimo c’erano 28 persone. Al primo compleanno, invece, eravamo in 30. Si erano aggiunti Italo Bocchino e la moglie. E da quel momento cominciarono gli attacchi a Berlusconi».

Semplice coincidenza?

«Una volta Fini mi disse: "Amedeo, tu sogni la grande politica. Bocchino, invece, non crede in niente. E per questo è una persona capace di ogni cosa».

Torniamo al 2009.

«All’inizio Fini giustificò il suo controcanto al Cavaliere come normali reazioni agli attacchi de Il Giornale . Tentai più volte di fargli cambiare idea. Con Dell’Utri facemmo da mediatori. Berlusconi ci chiese cosa voleva Gianfranco, ci chiese se si sentiva troppo stretto nel ruolo di presidente della Camera. E arrivò ad offrirgli la segreteria del partito».

Cosa rispose Fini?

«Mi disse che non avrebbe mai lasciato la terza carica dello Stato perché da lì poteva "tenere per le palle Berlusconi"».

Ci furono altri tentativi di riconciliazione?

«Una volta Berlusconi e Gianni Letta si recarono nell’appartamento di Fini alla Camera. Il Cav gli domandò cosa voleva per piantarla. Fini chiese la testa di due ministri, La Russa e Matteoli, e di Gasparri, che era capogruppo al Senato. Berlusconi trasecolò: "Ma sono tuoi amici". Fini replicò: "L’amicizia in politica non è un valore". Ecco, questo era Gianfranco».

Cercò di farlo ragionare?

«Quando dissi a Fini che il suo progetto era ignobile, mi rispose che Berlusconi andava politicamente eliminato. E quando lo "costrinsi" a spiegarmi con quali numeri e appoggi voleva farlo, mi confessò che Napolitano era della partita. Usò proprio queste parole. Aggiunse che presto si sarebbero create le condizioni per un ribaltone e che aveva notizie certe che la magistratura avrebbe massacrato il Cavaliere. "Varie procure sono al lavoro", mi svelò, "Berlusconi è finito, te ne devi fare una ragione". E aggiunse che come premio per il killeraggio del premier sarebbe nato un governo di "salvezza nazionale" da lui presieduto con la benedizione del Colle. Quando parlava di Silvio, Gianfranco era accecato dall’odio, sembrava un invasato. Una volta mi disse: "Non avrò pace fino a quando non vedrò ruzzolare la testa di Berlusconi ai miei piedi"».

Cosa accadde poi?

«Siamo nei primi mesi del 2010. Fini mi convoca e mi dice che siamo vicini allo "showdown". In una riunione di parlamentari "fedeli" io gli obiettai che quello che stava portando avanti era un atto di una miopia enorme e una clamorosa carognata. Allora lui, in privato, mi chiese di vederci a cena. Era la sera del 20 aprile, due giorni prima della direzione del Pdl resa famosa dal "che fai, mi cacci?"».

Cosa le disse in quella cena?

«Che nella direzione non avrebbe rotto, ma si sarebbe limitato a creare un’area di dissenso interna. Evidentemente non era ancora pronto, non era ancora sicuro dei numeri per l’operazione. Io però capii e cominciai ad allontanarmi. Tentai ancora di trovare una conciliazione. Ma Fini disse che ormai era troppo tardi e non poteva tirarsi indietro».

E si arriva al 14 dicembre.

«Mi diedi da fare affinché quel piano saltasse. Convinsi alcuni amici, tra cui Silvano Moffa, ad astenersi e a non votare contro il governo. E ci riuscii. Nel nostro ultimo colloquio, qualche giorno prima, Fini mi disse che stavo perdendo una grande occasione, che aveva i numeri e sarebbe diventato premier. "Tu non pensare che io giochi d’azzardo" aggiunse, "credi che mi muoverei così se non avessi un accordo forte con Napolitano?"».

A Berlusconi ha mai raccontato queste cose?

«Cercai di fargli capire che Fini era solo l’esecutore, ma i disegnatori erano altri. Magari con una regia extranazionale».

Cosa glielo fa pensare?

«Me lo fece capire lo stesso Gianfranco, parlando tra le righe. Non va dimenticato che in passato era stato ministro degli Esteri, ed era stato bravo a tessere le giuste relazioni».

Ma perché un «colpo di Stato» nel 2009? L’Italia non era ancora un «paese da salvare».

«Credo che tutto sia nato quando Fini comprese l’errore commesso facendo entrare An nel Pdl. Dopo le elezioni del 2008 Berlusconi era al massimo splendore e Gianfranco capì che il Cav avrebbe dominato la scena politica per altri 20 anni. Così decise di precorrere i tempi. Sbagliando temi e compagni di viaggio. Una cosa ignobile, una mancanza di riconoscenza verso chi, appoggiandolo nella corsa al Campidoglio, gli aveva aperto un’autostrata. Fini, all’epoca, non era neanche certo di arrivare al ballottaggio, aveva paura di Buttiglione. Ma è sempre stato un ingrato».

Non eravate amici?

«Quando Almirante lo propose segretario del Msi, in tanti eravamo perplessi. Allora Giorgio ci invitò a casa sua e ci disse di stare tranquilli. "Fini", disse, "prima di andare al partito passerà sempre per casa mia". E allora ci convincemmo. Purtroppo un anno dopo Almirante morì. Ma c’era ancora Tatarella che lo teneva a bada. Quando se ne andò anche Pinuccio, Fini divenne il vero padrone di An. Altro che Forza Italia, era il nostro partito la vera caserma».

Ma perché dice queste cose solo oggi?

«All’epoca ho fatto di tutto per favorire una ricomposizione. In seguito, ho ritenuto che era meglio lasciare queste cose alle miserie umane. Ma adesso che la verità sta venendo a galla, è giusto che si sappia tutto di quegli anni».

Se fosse stato ancora in Parlamento, avrebbe votato per la rielezione di Napolitano?

«No. Mi sarei astenuto. O magari sarei uscito dall’aula».

E perché il Cav, sospettando questi fatti, ha dato il suo ok?

«Perché è uno statista. Quando si è reso conto che non si riusciva a trovare la sintesi su un nome, ha ceduto. Lui è fatto così. Concede sempre a tutti una seconda possibilità».

Carlantonio Solimene, Il Tempo, 13.2.2014 

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