Davos. La diseguaglianza non è tutta uguale

Perché la sperequazione è una lente inadeguata

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New York. A questo punto non ci si può esimere dal parlare – inorriditi – di diseguaglianze economiche, non si può evitare che la sperequazione diventi parafulmine e piattaforma politica, questione dirimente e punto imprescindibile del manuale di conversazione globale, una linea di demarcazione fra “noi” e “loro” talmente chiara che nemmeno Barack Obama può fingere di non averla vista. Di diseguaglianza il presidente parlerà la settimana prossima nel discorso sullo stato dell’Unione, assecondando lo spostamento verso lidi populisti che è il marchio dell’annata democratica e mettendo in ombra le richieste della parte moderata di puntare forte sulla crescita, ché alla giustizia sociale si penserà una volta rimessa in moto l’economia.

Anche lo scorso anno, nella stessa occasione, aveva tuonato di tasse ai ricchi e salario minimo – piattaforma su cui aveva del resto bastonato il turbocapitalista Mitt Romney – salvo poi abbandonare per strada le velleità egalitariste più spinte. Bill de Blasio con le disparità ci ha conquistato New York contro ogni pronostico; la senatrice Elizabeth Warren, che con la lotta senza quartiere all’avidità dei banchieri si è conquistata un posto nella sinistra che fa clima, riceve continue pressioni per gettarsi nella prossima corsa verso la Casa Bianca. Proprio contro Hillary e la sua macchina clintoniana, quintessenza della diseguaglianza umanizzata da un rossetto progressista. Anche al World Economic Forum di Davos si punta tutto sulle diseguaglianze economiche, il che è tutto dire. Ma in fondo i tecnocrati che si riuniscono in Svizzera sono gli stessi che promettevano anche di moralizzare i banchieri responsabili della crisi e di contribuire alla creazione di un mondo più giusto, dunque ora non possono che abbracciare la retorica anti sperequazione. L’egalitarismo ha trascinato per la stola anche Papa Francesco, nominato guerriero della giustizia sociale per il generale insistere sulle periferie esistenziali e per il particolare criticare le maligne illusioni da trickle-down economics. Nel messaggio al forum di Davos ha scritto che “la crescita dell’uguaglianza richiede qualcosa in più della crescita economica, anche se la presuppone”. Crescere non basta, dicono i liberal devoti, occorre spalmare e ridistribuire.

A forza di ripeterla, l’idea stessa di diseguaglianza si è appiattita in un gioco a somma zero dove la colpa dell’impoverimento della middle class è direttamente attribuibile all’arricchimento dei plutocrati ai piani alti della scala sociale. Gli uni sono poveri in quanto gli altri sono ricchi. Lo studio sulla disparità che l’associazione Oxfam ha condotto per il forum di Davos è praticamente un manifesto di Occupy Wall Street ex post, con tanto di 1 per cento del mondo che tiene sotto il tallone tutti gli altri: “L’estrema diseguaglianza economica è dannosa e preoccupante per molte ragioni: è moralmente criticabile. Può avere effetti negativi sulla crescita economica e sulla riduzione della povertà, e può moltiplicare i problemi sociali”. Anche le disparità di genere, garantisce lo studio, sono il risultato delle diseguaglianze economiche, per non parlare poi delle falle nei meccanismi di rappresentanza: come diceva il giudice dela Corte suprema Louis Brandeis, opportunamente citato da Oxfam, “possiamo avere la democrazia oppure possiamo avere la ricchezza concentrata nelle mani di pochi, ma non possiamo avere entrambe le cose”. Se si vuole evitare che la disparità diventi un fatto cronico, irreversibile, e che la rappresentanza politica venga presa da un putsch dei ricchi, occorre agire subito, prescrive Oxfam: “Se non vengono prese immediatamente decise misure politiche per mitigare l’influenza della ricchezza in politica, i governi lavoreranno per fare gli interessi dei ricchi, mentre le diseguaglianze politiche ed economiche continueranno a crescere”. La sperequazione è il grilletto che scatena tutte le altre diseguaglianze. E pazienza se la forbice del reddito, a livello globale, tende a diminuire.

Qualcuno, però, è convinto che quella della diseguaglianza sia diventata ormai una mitologia ultrasemplificata che sarà anche utile per le campagne elettorali ma non è in grado di descrivere la realtà. David Brooks, editorialista conservatore del New York Times, ha compilato un prontuario delle generalizzazioni intorno alla disparità economica, che passa innanzitutto per la confutazione dell’arte, capziosa, del considerare uniti problemi che nella realtà si danno separati.

Il motivo per cui i ricchi tendono a rimanere ricchi generazione dopo generazione non ha nulla a che vedere con il fatto che lo stesso pattern vale per i poveri. Ma se i due fenomeni vengono mischiati nello stesso pentolone statistico ecco materializzarsi le tende di Zuccotti Park, i moniti, la retorica pelosa di Davos, i comizi arrabbiati di De Blasio. Il problema, dice Brooks, è che l’appiattimento attorno alla diseguaglianza riconduce qualunque problema sociale a mera questione di reddito e illude la politica di poter risolvere il problema con misure conseguenti. L’esempio di scuola è l’aumento del salario minimo che Obama sbandiera come antidoto alle ingiustizie, ma in realtà non fa nulla per aiutare la fascia più povera della popolazione, quella che non ha un lavoro e ha perso la speranza di trovarlo. Il martellare egalitarista dei Joseph Stiglitz ha forgiato negli anni la mentalità del “noi contro loro” e certamente nella sua visione la disparità non è un destino o una condizione, ma una scelta: “Stiamo entrando in un mondo diviso non soltanto fra chi ha e chi non ha, ma anche fra paesi che non fanno nulla al riguardo e paesi che fanno qualcosa”.

Dietro al disastro della diseguaglianza c’è una maxima culpa politica che si esprime nella forma dell’omissione: l’oligarchia del mondo si gira dall’altra parte. Eppure, come fa notare l’urbanista Joel Kotkin in un recente saggio, “La guerra di classe che influenzerà le elezioni del 2014”, c’è oligarca e oligarca. C’è il magnate del petrolio texano e il ceo della start-up della Silicon Valley, ci sono i fratelli Koch e l’egalitarista Warren Buffett, ci sono le élite repubblicane e quelle democratiche. E’ tutto uguale? Metterli nella stessa compagine pare ingiusto, e allora ecco che l’idea della diseguaglianza come criterio universale che tutto accomuna e livella prende a scricchiolare. Kotkin sa che la prossima campagna di midterm sarà sbilanciata sulla diseguaglianza e tenta di ridisegnare i confini di un concetto ostaggio della retorica della sinistra radicale. L’America, piuttosto, è divisa fra “yeomanry” e “clerisy”: una middle class di piccoli proprietari e lavoratori indipendenti contro l’élite dei professori universitari e dei burocrati legati al settore pubblico. La seconda categoria ha simpatie democratiche, mentre nella prima sono rappresentate tutte le tendenze politiche; ma quello che conta nello schema di Kotkin è che il criterio di divisione non è solo economico. Non è nell’alveo del reddito che tutte le tendenze di questo mondo possono essere spiegate e risolte.

© - FOGLIO QUOTIDIANO di Mattia Ferraresi   –   @mattiaferraresi, 23 gennaio 2014 - ore 13:05

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