Davos. Saliscendi sui monti della finanza

Dal guru dimissionario El-Erian al comiziante Serra,

e non solo loro. A Davos sfilano gli dèi del denaro, nient’affatto fiduciosi nella politica (soprattutto europea) e in cerca di un’altra chance dopo crac e bluff

Gli dèi del denaro non perdonano. E’ piombata come un fulmine sul summit di Davos iniziato ieri la notizia che Mohamed El-Erian ha dovuto lasciare la poltrona di ceo di Pimco, il colosso statunitense del reddito fisso controllato dalla tedesca Allianz. “L’ho visto ieri sera”, mormora il presidente di Ubs, Axel Weber. E aggiunge: “Hanno avuto un anno pesante come tutti quelli che si occupano di obbligazioni. Davvero pesante”. Amen. Insomma, la dura legge del profitto vale per tutti, anche per una superstar come El-Erian, 55 anni, figlio di un diplomatico egiziano, quindici anni al Fondo monetario internazionale e già tesoriere di Harvard, fino a ieri il più credibile candidato a succedere al fondatore del gruppo, Bill Gross, 67 anni, che invece l’ha fatto fuori annunciando via web di “esser pronto a guidare l’azienda per altri 40 anni almeno”. Eppure El-Erian è senz’altro una delle voci più ascoltate nel modo della finanza globale, un oracolo moderno che ogni giorno distilla gocce di saggezza via Twitter e che può rivendicare il copyright di una delle formule più gettonate negli anni della crisi: il mondo sviluppato deve adattarsi al “new normal”, cioè a tassi di crescita più modesti del passato e ripensare la società alla luce della nuova situazione.

Chissà, forse il fulmine che ha colpito El-Erian all’avvio di Davos, di cui è stato tante volte protagonista, sta a indicare che i potenti del denaro hanno intenzione di voltar pagina una volta per tutte dopo gli anni della penitenza. Le multe miliardarie inflitte a JP Morgan (20 miliardi in un anno solo, e non è finita) non hanno consigliato a Jamie Dimon di disertare il meeting dedicato quest’anno all’ambizioso obiettivo di “rimodellare il mondo”. E tra i saloni dell’Intercontinental si possono incontrare tante vecchie conoscenze che sembravano ormai spazzate via da scandali e crac. C’è Bob Diamond, il boss di Barclays che nel 2010 si mise in tasca, tra bonus e stipendio, più di 63 milioni di sterline, per poi essere cacciato dalla City come principale architetto dello scandalo del Libor. Sembrava finito, invece, un anno dopo lo scandalo, si ripresenta come dirigente di Atlas Mara, società specializzata in investimenti in Africa che batte bandiera delle Isole Vergini. Magari lo si incontrerà in qualche coffee break assieme a Huw Jenkins, già membro del board di Ubs ai tempi del tracollo dei derivati. Oggi il banchiere si è riciclato nella brasiliana Pactual mentre il suo ex capo, Marcel Rohner, accusato di “imperdonabile ignoranza” dalla commissione di inchiesta del Parlamento inglese sui “buchi” alla City, ha semplicemente attraversato la strada per spostarsi dai concorrenti dell’Union Bancaire Privée.

Insomma, sembra che gli angeli caduti della finanza abbiano diritto a una seconda chance. Non tutti, certo. Ma la “Davos Society”, oltre 2.500 Vip da tutto il mondo tra cui quaranta capi di stato, è molto più che un’occasione di incontro tra vecchi e nuovi potenti. Certo, c’è chi, come Davide Serra di Algebris, non si trattiene dal distribuire analisi politiche un po’ banalotte (“in Italia c’è l’ossessione su chi allena la Nazionale – sentenzia – Agli investitori esteri importa solo come giocano i giocatori, cioè se il paese sia più o meno competitivo”). O chi, come il sindaco di Roma Ignazio Marino, dichiara di andare a caccia di investitori per la capitale (mai disperare, non mancano gli appassionati di junk bond). La questione più sentita, però, è capire se, dopo sette anni di quaresima, il mondo del business è pronto a recitare di nuovo il rosario della crescita. Ovvero se, dopo anni passati a metter la museruola agli animal spirits più rischiosi, si possano allentare le briglie. Non è questione da poco. Richard Edelman, che per Davos cura il barometro della fiducia, la sintetizza così: “Quest’anno è cresciuta la distanza tra mondo del business e della politica. Mai, dal 2001, è stata così bassa la fiducia nei governi e nella politica economica. Colpa degli errori, soprattutto in Europa, delle terapie pubbliche anti crisi, ma anche di un lento recupero di autostima da parte della finanza”. Guai, però, se il processo facesse riemergere la voglia di deregulation. “La crisi reputazionale scoppiata nel 2008 è tutt’altro che superata”.

Come emerge dai sondaggi, politici e uomini di impresa denunciano, oltre alla perdita di efficacia e credibilità delle politiche economiche, la fragilità della leadership. Non a caso il tiepido ottimismo sulla ripresa è sommerso dai warning sui rischi che corre l’Europa, erosa dallo spettro della deflazione che Angela Merkel (quest’anno assente, causa convalescenza) non vede. Speriamo che El-Erian ci risollevi l’animo con un tweet all’insegna dell’ottimismo. Di sicuro, lui non farà a lungo parte dell’esercito dei disoccupati.

FQ. di Ugo Bertone, 23 gennaio 2014 - ore 13:02

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