FANTAPOLITICA? Riina, lo stato come agente
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provocatore. Subito un’inchiesta
Qualche settore d’apparato dello stato italiano è coinvolto in una spaventosa messinscena il cui obiettivo è mostrificare il presidente della Repubblica, calunniare Berlusconi e monumentalizzare il pm Di Matteo e il suo traballante processo. Se volete, mettete un punto interrogativo in cima alla frase che avete appena letto. Ma il sospetto è lancinante. Basato su impressioni fondate su un fatto e su un precedente. Il fatto è che nel settembre dell’anno scorso un certo Alberto Lorusso, che secondo il quotidiano Repubblica è “ufficialmente solo un affiliato della Sacra corona unita, in realtà un personaggio forse legato agli apparati polizieschi”, ha avuto la fortunata occasione di scambiare due chiacchiere con Totò Riina nel cortile del carcere di Opera, settore massima sicurezza. Ne sono venute fuori centinaia di pagine di trascrizioni della conversazione, e materiale video che offre l’idea distorta, perfino grottesca, di quella che nel giornalismo d’antan era la a.d.r. ovvero “a domanda risponde”, insomma il colloquio come collusione subdola in funzione del suo stesso uso politico.
Risultato? Effetti? Il capo dei capi in pensione da 21 anni, messo a riposo in galera dagli uomini che le inquisizioni e i processi Ingroia-Di Matteo hanno cercato per anni di incastrare come collusi, confida a questo presuntivo agente dello stato o del “doppio stato”, chiamatelo come volete, tre cose almeno che sono miele per le orecchie di una certa Italia costantemente convocata nella piazza della denigrazione e del sospetto come anticamera della verità: Napolitano è il darling del corleonese, si comporta bene ed è fiero nemico della procura di Palermo cui riserva “mazzate sulle corna”; Berlusconi è un suo contiguo interlocutore, e tutto ciò che lo riguarda ha il segno ambiguo del messaggio trasversale; il pm Di Matteo è un colosso dell’antimafia più veridica e il suo processo spompato si può ricominciare a pompare in modo più convincente che con le omelie di Barbara Spinelli.
Il precedente, di un anno prima (estate 2012), fu la visita a Parma, al capezzale di Bernardo Provenzano, di due parlamentari investiti del “colloquio investigativo” speciale riservato agli onorevoli, e lo fecero allo scopo di ottenere dichiarazioni e pentimenti utili a chissà che cosa di un altro corleonese capo tra i capi. I due, investiti di un “impegno istituzionale” e vittime a loro giudizio di una fuga di notizie, rispondevano al nome di Giuseppe Lumia e Sonia Alfano, parlamentari del partito trasversale di Antonio Ingroia e della famosa “agenda rossa”, che si rivelò essere un parasole. Quella iniziativa sfortunata mise capo a nulla ma testimoniò di una assoluta mancanza di scrupoli giuridici ed etici tipica dell’universo del “pentimento di mafia” e dei suoi professionisti nella vita politica e civile, così diversi dal professionismo di un Giovanni Falcone.
Di questo scrivemmo all’epoca, commentando il precedente, le seguenti parole: “La legge prevede che un magistrato o un ufficiale di polizia giudiziaria possa incontrare un boss per saggiare la sua disponibilità al pentimento. Ma proprio perché si tratta di una zona grigia, dove è possibile che un investigatore si trasformi in un suggeritore o che la trattativa diventi un patto oscuro e scellerato, i colloqui investigativi sono sottoposti al controllo e alla necessaria autorizzazione del procuratore nazionale antimafia e del ministro della Giustizia”. E concludevamo che i due esponenti del partito-che-si-sa, “vestiti con i paramenti sacri del Parlamento”, avevano “intavolato di fatto una nuova trattativa tra lo stato e la mafia. Ovviamente mirata, e non potrebbe essere altrimenti, a rafforzare la fragilissima inchiesta di Antonio Ingroia sulla famigerata trattativa di vent’anni fa”.
Le cose sono andate avanti, come si vede, cioè indietro. Non importa come si consideri la questione della trattativa: se fondata e collusiva, come sostengono i diversi partitini togati e non dell’antimafia politica professionale, oppure infondata o legittima e pro bono pacis, come sostengono tutti gli altri con il conforto analitico del professor Fiandaca e altre testimonianze autorevoli. Il punto civilmente insostenibile è un altro: abbiamo adesso il romanzo politico di Riina in persona, e a confezionarlo secondo interessi convergenti del vecchio corleonese in ritiro e altri interessi politici e giudiziari primari, potrebbe essere stato un agente provocatore. Dove non riuscirono i nostri eroi parlamentari, potrebbe essere riuscito nella provocazione un Alberto Lorusso.
Una inchiesta seria, dunque non giudiziaria e non di rito palermitano, una inchiesta parlamentare urgente e blindata, è a questo punto necessaria. Vogliamo sapere se il tramonto nella malattia e nella disperazione dei capi della mafia è, per una qualsivoglia ragione, alimentato da speranze e collusioni che settori oscuri dello stato si incaricano di fornire loro, perché parlino in modo consono agli intendimenti dei pupari. Siamo il paese di Massimo Ciancimino, il pataccaro, e delle avventure politiche degli Ingroia, cioè dei colleghi di Di Matteo che cercarono, anche a colpi di interviste di quest’ultimo, di trascinare nella fogna del sospetto il Quirinale. E’ tollerabile che con simili metodi si possa procedere oltre?
© - FOGLIO QUOTIDIANO Giuliano Ferrara, 22 gennaio 2014 - ore 06:59