Quell’asse col Quirinale che rassicura
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Renzi dalle rotture cuperliane
Le dimissioni del presidente del Pd, la nascita di una nuova e conciliante minoranza, la telefonata con Nap.
Le rassicuranti parole registrate ieri sera durante il confronto avuto alla Camera con i gruppi parlamentari del Pd hanno dimostrato a Matteo Renzi che le improvvise dimissioni di Gianni Cuperlo rappresentano più una prova di debolezza che una prova di forza da parte dell’opposizione interna al Pd. Il segretario fiorentino – che lunedì, durante la direzione, aveva scazzottato con l’ex presidente del Pd, accusandolo di utilizzare in modo strumentale l’introduzione delle preferenze come discriminante per votare la legge elettorale – ieri ha esposto i punti della riforma ai deputati del Pd e nel valutare le posizioni delle varie correnti e correntine del partito ha capito che la legge elettorale non incontrerà grandi ostacoli in Parlamento; e ha compreso che sarà sufficiente limare verso l’alto la soglia necessaria per raggiungere il premio di maggioranza, oggi prevista al 35 per cento, per evitare di incappare in problemi di carattere costituzionale. La sicurezza di Renzi deriva da due elementi che promettono di essere decisivi lungo il percorso che il Rottamatore seguirà nei prossimi mesi per imporre all’esecutivo il governo Leopolda. Il primo riguarda il rapporto con la minoranza (in confusione) del partito. Il secondo il rapporto (in evoluzione) con Giorgio Napolitano. Sul primo punto la situazione si è ben delineata e ieri le dimissioni di Cuperlo non hanno fatto altro che segnalare che l’unica scissione in vista non è quella del Pd ma è quella della minoranza del Pd. Enzo Amendola, deputato, elettore di Cuperlo, ammette che lunedì, prima della direzione, il fronte cuperliano si è diviso definitivamente in due blocchi.
“In effetti – dice Amendola – stanno emergendo due modi diversi di fare opposizione. Qualcuno pensa che dovremmo comportarci come se ci trovassimo in una stanza con un morto, come se l’esito delle primarie avesse staccato la spina al Pd. Qualcun altro pensa che dovremmo comportarci in modo costruttivo, proponendo le nostre idee ma senza dimenticare che il segretario, politicamente, sta per portare a casa un risultato incredibile”. Tradotto significa che nel fronte parlamentare composto da deputati e senatori di fede non renziana, e in particolare di fede bersanian-dalemiana, sono emerse ormai due linee opposte. Da una parte c’è la sinistra oltranzista, e rancorosa, che vede in Renzi non un avversario ma il simbolo di un male da combattere con tutte le armi possibili, e che si ritrova nelle parole dei vari Alfredo D’Attorre e Stefano Fassina, che ogni volta che ne hanno occasione cercano di offrire ai propri elettori un’equazione semplice: Renzi uguale Berlusconi. Dall’altra parte invece c’è una sinistra più dialogante, con cui il segretario ha costruito un rapporto solido, e che punta a intestarsi la guida dell’opposizione “costruttiva” al Pd renziano. Di questa seconda opposizione, che alla Camera, su 293 deputati, dispone di una truppa di una sessantina di parlamentari, fanno parte i vari Matteo Orfini, i vari Andrea Orlando, i vari Enzo Amendola e i vari Roberto Speranza (capogruppo Pd), e Renzi sa che in caso di difficoltà in Parlamento potrà contare anche sul loro sostegno. Sul rischio scissione, invece, pur essendo sotto molti punti di vista convincente la tesi renziana del “ma tanto ’ndo vanno?”, gli inquirenti seguono sempre la pista D’Attorre-Fassina, e nell’entourage del sindaco c’è chi fa notare che anche in Parlamento, a poco a poco, iniziano a emergere segnali di distanza tra il gruppo del Pd e il gruppo Fassina (la scorsa settimana, per dirne una, Fassina si è schierato in modo difforme dal gruppo Pd, astenendosi e non votando contro una mozione di indirizzo presentata da Sel per chiedere al governo di rinegoziare il Fiscal compact). “La sofferenza – aggiunge Amendola – esiste, inutile negarlo, e le dimissioni di Cuperlo accelerano questo processo. Molto è cambiato quando Renzi si è incontrato con Berlusconi. Alcuni amici hanno visto quell’incontro come uno stupro sul corpo del Pd. Altri, mi ci metto anche io, hanno vissuto quell’incontro come una svolta per le riforme. E sinceramente, visti i risultati, viste le riforme che ci sono sul tavolo, io non sono renziano ma quell’incontro lo avrei ospitato anche a casa mia”. Dove possa portare l’“accelerazione” generata dalle dimissioni di Cuperlo (al suo posto Renzi vuole un volto non della maggioranza, e i nomi sul tavolo sono, tra gli altri, Francesco Verducci, Pippo Civati, Barbara Pollastrini, Matteo Orfini) è difficile dire. La teoria del “tanto ’ndo vanno” ha una sua solidità ma qualora le limature sulla legge elettorale dovessero produrre un abbassamento dello sbarramento per i piccoli partiti è possibile che si possa innescare un meccanismo simile a quello osservato nel Pdl con Ncd. E d’altronde, ormai da tempo, i bersaniani e gli alfaniani si muovono davvero come se fossero due partiti gemelli.
In questo quadro a rafforzare la corsa di Renzi, e a sostenere la leopoldizzazione del governo, pesa il rapporto costruito dal segretario con il presidente della Repubblica. La fase burrascosa tra il mocciosetto di Firenze e il capo dello stato, cominciata quando il sindaco, all’apertura della sua campagna elettorale, a Bari, si schierò contro l’amnistia proposta dal Quirinale, si può dire si sia conclusa il 18 novembre dello scorso anno, ovvero nel momento in cui il presidente della Repubblica, rimasto colpito dalla vittoria del segretario nei circoli, ha chiesto all’entourage di Renzi di poter consultare rapidamente il dettaglio, sezione per sezione, del trionfo del Rottamatore. Da quel giorno, soprattutto tramite Graziano Delrio, ministro renziano del governo Letta, che gode di un canale privilegiato con il Quirinale (e che anche in virtù di questo dovrebbe essere promosso dal presidente del Consiglio in qualche dicastero di peso), Renzi e Napolitano hanno iniziato ad avere un rapporto più disteso. E pur suonando due spartiti diversi (difficilmente uno come Napolitano può concepire che durante la settimana un segretario di partito conversi con gli esponenti della sua segreteria non in una buia stanza di partito ma in una finestra Messenger di Whatsapp), i due hanno cominciato a intendersi più di quanto non ci si sarebbe aspettati. E il presidente della Repubblica, negli ultimi giorni, ha particolarmente apprezzato il modo in cui Renzi è riuscito a coinvolgere nella riforma elettorale tanto le forze d’opposizione (Berlusconi) quanto quelle di governo (Alfano). Lunedì, subito dopo pranzo, prima di entrare in direzione, il segretario del Pd ha avuto una lunga telefonata con il capo dello stato, e la sicurezza con cui Renzi da ore ripete quel suo “prendere o lasciare” sulla riforma deriva dal sostegno che Napolitano ha promesso al Rottamatore su questa partita. Sostegno che ha scelto di offrire anche Enrico Letta (i suoi 17 deputati alla Camera voteranno per la riforma) che con il segretario ha un rapporto complicato. Letta non si fida di Renzi, non sopporta il suo tono, la sua presunzione, i suoi #enricostaisereno, ma nonostante ciò apprezza la scelta di Renzi di non rompere con la maggioranza (per ora) e sa che approvare la legge elettorale con il pacchetto di riforme potrebbe persino rafforzare il governo. Questo lo sa ma continua a non fidarsi. E sotto sotto il premier (che presenterà il patto di coalizione la prossima settimana) non riesce a non pensare che la scelta di Renzi di accelerare sulla legge elettorale potrebbe anche essere un modo per tenersi aperta la finestra di maggio per andare a votare. Difficile che accada. Non impossibile però che un tentativo di dare un’ultima “scrollata” al governo Renzi lo faccia. Il sindaco ha fatto i calcoli. E in un foglietto custodito a Palazzo Vecchio ha segnato un giorno da tenere d’occhio: il 15 marzo, termine ultimo per capire che strada prenderà il governo Leopolda.
FQ. di Claudio Cerasa – @claudiocerasa