Relativismo ad maiorem gloriam Dei. Il Papa

passato dalla ragione al cuore, ma non è il curato universale

L’omelia di ringraziamento per la canonizzazione di san Pietro Favre è molto bella, e mostra i lineamenti del relativismo cristiano nel suo fulgore cinquecentesco. Il gesuita si svuota per lasciare posto all’insondabile Dio dell’interiorità, al centro del suo cuore che anela con virtù desiderante, nell’indifferenza psicologica e nella massima concentrazione, a fare la gloria di Cristo e ad afferrare la volontà di Dio todo modo. (Favre trovava fastidiosamente distraente, quando diceva la messa, il fatto che il suo pensiero indugiasse sull’edificazione dei presenti, dei concelebranti, dei fedeli, e la sua inquietudine spirituale per Dio, e solo per lui, lo spingeva a emendarsi e concentrarsi vieppiù a scorno dell’assemblea orante).

Un gesuita tormentato e raffinatissimo come Michel de Certeau (m. 1986) ha spiegato bene le basi del ritorno al cuore nell’edizione critica del Memoriale di Favre. Teologo all’impronta e mai licenziato nella disciplina, il più capace ignaziano nel dare gli Esercizi, compagno di stanza del Fondatore della Compagnia e di Francesco Saverio nel collegio di Santa Barbara a Parigi, Favre aveva una formazione filosofica particolare, di radice occamista dunque volontarista e, nel suo fondo spirituale, irrazionalista. Era buon allievo di Juan de la Peña, secondo il cui insegnamento ogni verità è caratterizzata da una “riserva teologica di principio”, la riserva relativista per cui la contingenza storica prevale sulla necessità razionale. I segni dei tempi, per parlare il linguaggio evangelico nel richiamo del pensiero cattolico postconciliare, sono infinitamente più importanti delle distinzioni di ragione e di dottrina, anche a proposito del discrimine tra il bene e il male. La conoscenza, come afferma l’esegeta moderno del nuovo santo di Francesco parlando della sua formazione, “è limitata a quel che esiste storicamente, non attinge una verità assoluta; si muove nel campo del ‘probabile’, perché la libera iniziativa di Dio può incessantemente trasformare la realtà presente…”. Come scriveva Gabriel Biel, teologo di riferimento dell’epoca, “l’Altissimo decreta ciò che a lui piace. Ciò che è esiste solo in relazione al suo ordine, ma Egli avrebbe anche potuto non volerlo. E’ dunque libero di fare quel che non è giusto; se lo fa, l’atto diviene giusto”. Con il che si spiega perfettamente la radice del ritorno al cuore della chiesa gesuita, e la fine virtuale dell’alleanza di fede e ragione predicata da Giovanni Paolo II e da Benedetto XVI.

Il Cinquecento mise le fondamenta missionarie di questo relativismo ad maiorem gloriam Dei, con la dolcezza combattente di Favre e dei suoi amici del nucleo duro e puro della Compagnia, un processo che la casuistica morale dei Reverendi Padri perfezionò in morale e in politica nel Seicento, arrivando ai famosi paradossi immoralisti (puoi rubare e uccidere se solo è probabile che tu segua una retta intenzione spirituale) contro i quali si batterono i giansenisti di Port Royal e uno strepitoso Blaise Pascal. Su questo terreno, che Carlo Maria Martini S.I. chiamava in polemica con Ratzinger “relativismo cristiano”, i gesuiti si sono sempre giocati il prestigio apostolico e il potere religioso e civile nella chiesa e negli stati-nazione di cui si fecero precettori, confessori e in qualche caso governatori. Non è per bontà d’animo, ma per dottrina, che Francesco rigetta il bastone dell’Inquisitore e predica il dialogo con il mondo storico, contingente, così com’è e non come vorremmo che fosse. Il suo rifiuto del rigore dottrinale tanto inviso al mondo peccatore è un complemento essenziale, machiavellico, del modo gesuitico di concepire l’imitazione di Cristo e l’evangelizzazione.

Non avendo potuto far santo Ignazio, ché altri aveva provveduto qualche secolo fa, Francesco ha proceduto con il suo plus proche compagnon d’armes, il pellegrino che percorreva a piedi l’Europa tormentata dalla Riforma luterana, il confessore di umili ma anche e sopra tutto di potenti e influenti, l’uomo dolce e remoto che Pio IX aveva beatificato dopo che i giacubbini gli ebbero rasa al suolo la cappella votiva nella Savoia. E gli ha tributato la bella omelia che non va scambiata, anche nelle sue naturali omissioni, per l’argomento del cuore di un buon uomo. Il Papa militare è vescovo di Roma, ma non è propriamente un comprensivo curato universale.

© - FOGLIO QUOTIDIANO Giuliano Ferrara, 4 gennaio 2014 - ore 06:59

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