Marchionne è un caso politico

Il chief officer transnazionale ha compiuto il miracoloso

salvataggio e rilancio dell’impresa capitalistica in declino. Ha lasciato “niuna cosa intatta”. Ha demolito concertazione e giustizialismo sindacale

Marchionne è un caso politico, prima di tutto. Non è solo questione di nuovi modelli, di mercato dell’auto italiano, di valori finanziari, di concambi e transazioni proprietarie, di famiglie del capitalismo transoceanico. L’incredibile performance del chief officer globale (Canada, Svizzera, Abruzzo) e della piccola e ormai marginale industria italiana in declino che si mangia un marchio in disperata crisi della grande tradizione di Detroit e va fino in fondo, tanto da divorarlo e digerirlo ora che l’economia americana è in ripresa, anche avvalendosi dei suoi profitti, non è solo una storia magnifica e in parte misteriosa di potere finanziario e di ardimento nel gestirlo con il sostegno dei poteri decisivi, politici e di mercato, nella patria del capitalismo; è anche e sopra tutto essa stessa un nuovo modello politico degno del quinto centenario del principe di Machiavelli. Sergio Marchionne ha lasciato “niuna cosa intatta”.

Ha sbaraccato la concertazione ed è uscito dalla concertativa Confindustria. Ha messo i governi italiani in condizione di dirgli, con Mario Monti, che il paese doveva smettere di chiedere alla Fiat cosa può fare per l’Italia e invece doveva cominciare a domandarsi l’inverso, che cosa l’Italia poteva fare, sopra tutto omettendo interventi protezionistici, per la fortuna della Fiat, capitale e lavoro, nel mondo dei mercati aperti.

Politici e sindacalisti classisti sono stati lasciati ai margini, a rimuginare ideologismi e a far chiacchiere: ancora adesso chiedono garanzie, con la ineffabile Susanna Camusso, quando dovrebbero fare il loro mestiere, e cioè contrattare condizioni accettabili per il lavoro, gli investimenti e la ricerca in un faccia a faccia produttivistico e bilaterale con la corporation, come hanno sostenuto, isolati e calunniati, pochi sindacalisti all’americana e qualche leader politico meno bolso e più realista e più di senso comune della media. Non si è piegato al sindacalismo giudiziario delle procure e dei giudici del lavoro, stabilendo compromessi sulla base di una chiara definizione dei diritti dei lavoratori e dell’impresa, che sono parte di un conflitto aperto e di natura contrattuale, non bandiere immobili a disposizione della demagogia ottocentesca dei capipopolo senza popolo. Marchionne ha tirato diritto, attirandosi antipatie equamente distribuite tra proletari, borghesi e mezze calzette, laddove il leader tipico dell’Italia moderna è uno che fa il giro dell’arabesco, disegna ghirigori sulla sabbia.

Non è importante che lo si immagini come strong man del business, un Vittorio Valletta dei nostri tempi, importante è che gli si riconosca di aver saputo dare battaglia in relazione a una visione, a un senso forte e urgente della realtà effettuale della cosa, senza lasciarsi impaniare, come era capitato spesso a Gianni Agnelli nell’Italia che conosciamo, dai condizionamenti ambientali del mondo d’antan. Chi intende tentare una via seria e responsabile di intervento nella crisi italiana d’oggi non può evitare di guardare con ammirazione a questo comportamento scandaloso che fu accolto, minoranze a parte, con diffidenza e scorno al suo apparire.

© - FOGLIO QUOTIDIANO Giuliano Ferrara, 2 gennaio 2014 - ore 20:53

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