La Kyenge non mette in regola i volontari della
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sua associazione. Dawa, l'organizzazione no profit a conduzione
familiare del ministro, fra progetti fantasma, bilanci opachi e irregolarità amministrative
La fortuna politica del ministro dell’Integrazione Cécile Kyenge inizia nel 2002 quando decide di fondare l’associazione di volontariato Dawa che il lingua swahili significa «magia», «medicina». Libero ha potuto consultare il fascicolo su Dawa, depositato presso la provincia di Modena, con la storia, le attività, lo statuto, le cariche sociali e lo schema riassuntivo del bilancio. Da queste carte risulta che l’organizzazione non profit ha avuto un lungo contenzioso con la provincia di Modena per la mancata copertura assicurativa obbligatoria dei volontari, prevista dalla legge quadro sul volontariato, la 266 del 1991.
Per anni Dawa ha vissuto nel terzo settore, con tutte le agevolazioni fiscali previste per legge, senza però pagare gli oneri dovuti. Ma andiamo per gradi e immaginiamo il futuro ministro Kashetu Kyenge (come risulta all’anagrafe) che insieme a sei amici e parenti, l’1 novembre 2002, il giorno dei Santi, con una scrittura privata dà vita alla «Dawa, associazione internazionale per la promozione dell’arte, la cultura e la sanità».
Tra gli atti consultati da Libero c’è anche l’organigramma: Cécile è il presidente, la psicoterapeuta Franca Capotosto è il suo vice, il marito Domenico Grispino è il «responsabile della relazione esteri e comunicazione», sua sorella Maria Teresa è «responsabile del settore culturale», il marito di Maria Teresa, Gianni Mazzini, è il «revisore dei conti».
La conduzione è a dir poco famigliare (la sede è la casa del ministro) e la squadra nei dieci anni successivi resterà praticamente la stessa. Nel 2003, tra «le attività e i progetti in corso», Kyenge inserisce una conferenza intitolata «Corpo e salute nella società tradizionale africana» della durata di 12 giorni (3-15 febbraio 2003) nel paese dove il padre Kikoko è capotribù (il villaggio Kyenge) nella Repubblica democratica del Congo. Si trova qui anche «Le centre de santè de la Ruashi-Kyenge» di Lubumbashi, una specie di ambulatorio ubicato sotto la casa della famiglia di Cécile e con cui Dawa interagisce. Per renderlo più efficiente sono previsti l’«acquisto di un’autoambulanza» (donata nel 2006 da un ospedale modenese), «la ristrutturazione e l’ampliamento della struttura», «l’apertura di un laboratorio oculistico» e quella di un «centro diabetologico». Tra i progetti, o forse sogni, ci sono anche l’inaugurazione di altri due «centri di salute», uno nel villaggio Kyenge e uno nel nord del Congo. Peccato che le cose non vadano come sperato e che nel 2007, come riferito da Libero, diversi volontari rimangano sconvolti dalle disastrose condizioni igieniche in cui sono costretti a operare nel «Centre de santè de la Ruashi-Kyenge», poco più di una cantina senza luce né generatore elettrico, né attrezzi sterilizzati. Qui le donne partoriscono in condizioni estreme.
Il 31 dicembre 2008 la Dawa, in seguito a un controllo a campione del registro provinciale del volontariato, deve descrivere la propria attività a cinque anni dall’iscrizione. Vengono indicati 11 soci attivi e 70 volontari, tra saltuari e occasionali. Scopriamo anche che l’associazione utilizza gratuitamente, insieme con altri gruppi, i locali di un ente pubblico e che nel 2007 non è riuscita a farsi finanziare dalla provincia il progetto per una scuola professionale nel villaggio Kyenge.
Il bilancio annuale registra 11 mila euro di entrate (solo 80 euro di quote sociali, 5.360 di raccolta fondi e circa 6 mila di trasferimenti da altre strutture non specificate), 8 mila euro di uscite e un attivo di 3.614 euro. L’esercizio degli anni precedenti ha un residuo di 280 euro. Il bilancio viene approvato da due o tre membri su cinque dell’organo direttivo.
Nonostante questi piccoli numeri Kyenge sostiene che nel 2008 Dawa ha portato a compimento «la progettazione e la realizzazione di tre opere all’estero» con altrettanti interventi di «aiuto economico», oltre ad aver «erogato servizi a mille immigrati». All’epoca Cécile è già lanciata in politica. Quattro anni prima, da presidente di Dawa, è stata eletta consigliere di circoscrizione per i Democratici di sinistra; nel 2009 diventa consigliere provinciale con il Partito democratico e responsabile regionale delle politiche dell’immigrazione del Pd; nel 2010 viene nominata portavoce nazionale della rete Primo Marzo che si occupa di promuovere i diritti dei migranti. La sua ascesa sembra inarrestabile, anche se in realtà la sua associazione è minuscola, lavora con solo una decina di soci attivi e le spedizioni africane sembrano ad alcuni l’occasione per far visita alla numerosa famiglia.
In più Dawa nel 2008 ha un piccolo incidente di percorso. Nel questionario che deve compilare a dicembre Kyenge ammette di non essere in regola con «l’assicurazione degli aderenti». Il 19 luglio del 2010 Valerio Vignoli, funzionario dell’ufficio monitoraggio e controlli dell’Area Welfare della provincia di Modena, scrive a Kyenge e le contesta che «l’associazione ha dichiarato di non aver provveduto ad assicurare i soci attivi e di non avere un elenco vidimato» degli stessi. Quindi richiede entro 60 giorni una dichiarazione firmata dal futuro ministro con l’indicazione di «istituto assicurativo, numero di polizza, decorrenza, numero di persone assicurate». In caso contrario la Dawa verrà «segnalata agli organismi competenti». Il responsabile del procedimento, non avendo ottenuto risposta, ricontatta la presidente il 23 novembre. La Dawa risulta ancora iscritta al registro provinciale del volontariato, ma non risponde. Passano altri quattro mesi e, il 14 marzo del 2011, il funzionario invia all’Istituto per la vigilanza sulle assicurazioni private e di interesse collettivo (Isvap) i nomi di sei associazioni modenesi che «non hanno comunicato l’attivazione di assicurazione». La quinta dell’elenco è la Dawa. L’Isvap ribatte che non è di propria competenza un «intervento diretto nei confronti delle segnalate associazioni». Raggiunto da Libero, Vignoli spiega: «Purtroppo c’è una legge che prevede un obbligo, ma non spiega chi debba comminare la sanzione». Una «magia», tipicamente italiana.
di Giacomo Amadori per Libero, 5.12.2013