Un uomo solo a Bruxelles. Con Letta,
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la partita dell’Italia in Europa è sempre più moscia
Schiacciato dai rigorismi filotedeschi, alla vigilia dei “contratti” di Merkel, il premier non vuole imbarazzare Draghi
La candidatura di Olli Rehn alla presidenza della Commissione europea: ecco, dicono fonti informate su Palazzo Chigi, il vero bersaglio della doppia esternazione di Enrico Letta contro il commissario agli Affari economici e monetari. Il 22 novembre il presidente del Consiglio si era scagliato genericamente contro gli “ayatollah del rigore”. Martedì, dopo una ruvida intervista di Rehn a Repubblica (“l’Italia non sta rispettando l’obiettivo di riduzione del debito, e su privatizzazioni e spending review per ora resto scettico”), ha dato un nome all’ayatollah facendo un esplicito accenno alle sue ambizioni per le elezioni dell’Europarlamento, dopo le quali, entro novembre 2014, verrà rinnovata la Commissione. Questa era la freccetta lettiana dicono gli insider, più del distinguo tra il Rehn-commissario – “che non può permettersi scetticismi” – e il Rehn candidato. Il problema è che il capo del governo, il quale si sta muovendo da tempo contro la nomina del liberaldemocratico Rehn al posto dell’ex socialdemocratico, poi cristiano-popolare, José Barroso, non ha trovato per ora sponde importanti tra gli altri leader. Ai quali, assieme al partito vincitore a Strasburgo, spetterà la nomina. L’operazione è nota a Bruxelles e in parte è all’origine della ormai quasi totale incomunicabilità tra Letta e il più potente e filotedesco dei commissari, con ricadute che investono altri ministri, come quello dell’Economia, Fabrizio Saccomanni, che ieri ha dovuto smentire che l’Ue abbia chiesto ulteriori 6 miliardi di tagli.
Il 20 novembre, a margine del summit romano sulla Tav, Letta ne ha parlato con François Hollande, proponendogli di convergere sulla candidatura del socialista tedesco Martin Schulz, presidente dell’Europarlamento: ma il presidente francese non avrebbe dato garanzie benché appartenga alla stessa famiglia politica di Schulz e Letta. Così ne è uscita la solita dichiarazione sulla crescita e sull’Unione bancaria: a quest’ultima i tedeschi, sia democristiani sia socialdemocratici, sono contrari al punto da averla esclusa dall’accordo di coalizione Cdu-Spd. “The Hollande-Letta summit, an excercise in verbosity”: così ha sentenziato il blog EuroIntelligence, diretto dal certo non merkeliano Wolfgang Münchau, commentatore europeo del Financial Times.
Se su questo fronte il premier italiano non è riuscito a farsi ascoltare, eguale incertezza viene notata nei rapporti con la Banca centrale europea. A chi gli ha chiesto un giudizio su Mario Draghi, dopo il feeling che c’era stato tra il presidente dell’Eurotower e Mario Monti, Letta ha detto di non voler “italianizzare Draghi, per non danneggiarlo nei continui sospetti europei”. Forse non è il commento atteso a Francoforte. Nello staff governativo circola appunto un certo sconforto sulla partita italiana in Europa. Nessuna delle iniziative lettiane, peraltro su terreni più facili come l’occupazione e l’immigrazione, ha avuto risultati concreti. I rapporti con il cancelliere tedesco Angela Merkel sono formali. Né il capo del governo ha mostrato l’attitudine a trattare sott’acqua con Merkel e con la Bce, come lo spagnolo Mariano Rajoy (altra sponda mancata). L’asse con Hollande si è limitato ad affermazioni di principio, data anche l’abitudine di Parigi ad allinearsi a Berlino. Fatto è che Spagna e Francia hanno ottenuto senza anatemi deroghe sul rientro del deficit. Ora, oltre a rischiare di non raccogliere nulla dall’uscita dalla procedura d’infrazione – i margini di manovra nel 2014 già ridotti da 7 a 3 miliardi potrebbero azzerarsi – il governo italiano potrebbe affrontare in solitudine la partita dei “contractual arrangements”, gli accordi bilaterali tra singoli governi e Commissione in dicussione al Consiglio europeo del 19-20 dicembre. Un’idea della Germania basata su prestiti in cambio di riforme e che Letta teme gli leghi ancora le mani. L’economista Marcello Messori la definisce sul Corriere della Sera “un’imperdibile opportunità” per “graduare gli aggiustamenti e allentare altre richieste europee”, a patto che i “paesi responsabili” riescano a non soccombere nel negoziato.
Il Foglio, 5 dicembre 2013 - ore 06:59