Sette miliardi di dollari. Ecco perché

Khamenei celebra l’accordo

A Teheran la firma dell’accordo ad interim sul nucleare tra l’Iran e i 5+1 ha prodotto un’euforia incontenibile. Di ritorno da Ginevra i negoziatori iraniani sono stati accolti come eroi in un’apoteosi di cori in farsi e in inglese, applausi e bandierine, parevano i membri della Nazionale di calcio dopo una vittoria ai Mondiali. L’uomo del giorno, il ministro degli Esteri Javad Zarif, si è concesso stanco e sorridente (nel sorriso, ha spiegato nella domenica del suo trionfo, sta il segreto del buon diplomatico) a una folla di giornalisti, curiosi e signore che gli si accalcavano intorno come groupie.

Siccome però di troppo successo in Iran spesso politicamente si muore, Zarif dopo settimane di video su Facebook e YouTube targati per il pubblico occidentale (siamo come voi, abbiamo gli stessi sogni, desideriamo solo essere trattati da pari) ha tradotto l’accordo di Ginevra per i suoi connazionali. Il consenso tra l’Iran e i 5+1 è frutto del rispetto che finalmente ci è stato tributato, gli inalienabili diritti iraniani sono stati riconosciuti (in realtà il diritto all’arricchimento dell’uranio non è stato riconosciuto in maniera esplicita e il segretario di stato americano, John Kerry, ha negato che l’Iran abbia ottenuto il diritto all’arricchimento dell’uranio), onore dunque alla resistenza del popolo iraniano e alla guida lungimirante del leader supremo Ali Khamenei. Il tono era simile a quello adottato dal presidente Hassan Rohani a poche ore dall’annuncio della fumata bianca. Circondato da mogli e figli di martiri (gli scienziati nucleari iraniani vittime di attentati) con l’unico tocco pop di una scalinata piuttosto teatrale, Rohani ha parlato con lo stile che piace ai conservatori e il piglio nazionalista delle grandi occasioni. Ogni merito per il successo della trattativa – ha detto il presidente – va ascritto al nezam, ossia al regime e al suo demiurgo.

Non erano solo le parole di un politico astuto che sa che un eccesso di protagonismo potrebbe essergli fatale. Rohani ha dato a Khamenei quel che è di Khamenei . L’Iran perde ogni mese 5 miliardi di dollari a causa delle sanzioni e il leader supremo vuole riabilitarsi agli occhi degli iraniani. “Il team nucleare deve essere apprezzato e ringraziato – ha detto Khamenei – La loro condotta può essere la base di altre azioni sagge”. Le rivelazioni dell’Associated Press e di al Monitor riguardo ai colloqui segreti tra americani e iraniani che si sono svolti a partire dalla primavera scorsa in Oman avvalorano l’impressione che l’elezione di Rohani si inserisca in un disegno più ampio tracciato da Khamenei. Amir Mohebbian, uno dei più influenti commentatori del panorama conservatore, ha detto a Thomas Erdbrink del New York Times che Rohani è stato appoggiato da Khamenei proprio perché era l’uomo giusto per tendere la mano all’occidente. Il fatto che Khamenei un giorno dica di non essere contrario a interagire con il Grande Satana americano (il 21 marzo scorso ad esempio) e in innumerevoli altre occasioni, anche alla vigilia dei colloqui di Ginevra della settimana scorsa torni alle invettive più feroci è una contraddizione solo apparente. La crisi economica in Iran si è trasformata in una crisi sociale che erode il consenso del regime. Khamenei ha bisogno di capitali (secondo le stime l’accordo di Ginevra dovrebbe fruttare a Teheran circa 7 miliardi di dollari) per tenere insieme il regime e arginare la disperazione popolare. Ha capito che vanno limitati i danni, che gli investitori vanno blanditi, che non è vero che “l’economia è per gli asini”, ma la normalizzazione dei rapporti con gli Stati Uniti continua a ripugnarlo.

L’accordo siglato a Ginevra è “storico” sottolinea Vali Nasr, rettore della School of Advanced International Studies della Johns Hopkins University. Un regime che si è sempre definito in antitesi agli Stati Uniti –  dice Nasr – ha formalmente firmato un patto con gli Stati Uniti. Il placet di Khamenei è però limitato alla sfera del nucleare, l’influenza culturale occidentale è temuta dal leader supremo quanto uno strike atomico e l’idea che una bandiera americana torni a svettare “sul covo delle spie” pare implausibile. E se Zarif e Rohani sono già interlocutori più credibili di quanto non lo fossero i loro predecessori, il riallineamento delle dinamiche regionali che tanto terrorizza Riad, Doha e Ankara non è dietro l’angolo. Nel frattempo solo il tempo saprà dire se al primo passo di Ginevra (Washington preferisce “first step” piuttosto che “interim accord”) seguirà tra sei mesi un accordo definitivo. Intanto Rohani e Zarif festeggiano i loro primi cento giorni.

FQ.di Tatiana Boutourline, 26 novembre 2013 - ore 15:12

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