Grandi coalizioni, piccole sinistre. L’Euroflop

socialdemocratico, da Berlino in giù, visto dai politologi

Ogni paese fa storia a sé, ma una tendenza comune nel panorama politico europeo oggi c’è: nella più profonda crisi economica che il continente attraversa da decenni, i partiti della sinistra socialdemocratica non riescono ad aggiudicarsi il “dividendo” di consensi che sarebbe lecito attendersi. Il voto tedesco di domenica, con l’Spd fermo al 25,7 per cento e mai così distante dai cristiano-democratici di Angela Merkel (41,5), ne è l’ennesima conferma. Poi ci sono le grandi coalizioni (8 su 17 paesi dell’Eurozona, molte a guida liberale) e l’avanzata conservatrice perfino nei paesi scandinavi. “La sinistra vince quando può espandere la spesa pubblica, ma a questa crisi non si può rispondere con scelte banalmente neokeynesiane o espansive”, dice al Foglio Angelo Panebianco, politologo dell’Università di Bologna ed editorialista del Corriere della Sera. “Inoltre i partiti socialdemocratici sono movimenti le cui ideologie risultano logorate, si alimentano di miti propellenti fino a 20 anni fa ma che oggi non sono più tali. Nei governi in questa fase si cerca perlopiù efficienza, capacità di mantenere promesse pur minime. Per questo Merkel è parsa più adatta. Mentre non esistono politiche di ‘sinistra tradizionale’ che risultino credibili oggi”. Panebianco precisa che l’Italia ha comunque le sue particolarità, visto che da noi “non esiste un partito socialdemocratico che, per definizione, dovrebbe erigere una barriera rigida con la sinistra estremista, e idem per la destra”. Giovanni Orsina, storico della Luiss, sottolinea un paradosso del voto tedesco: “In Germania l’Spd di Schröder ha fatto, all’inizio degli anni 2000, quelle riforme liberali che subito dopo hanno reso datate le ricette socialdemocratiche classiche. L’ondata liberista e globalizzante avviata negli anni 70, infatti, non si è soltanto costruita sul fallimento della socialdemocrazia. Ha anche inaugurato un processo che rende quel modello totalmente superato”. I fenomeni che vanno sotto l’etichetta di “globalizzazione” mettono in difficoltà “una sinistra per cui la sovranità, tema teoricamente di destra, rimane il fondamento delle politiche socialdemocratiche. A meno di soluzioni choc tipo l’uscita dall’euro che nessun partito ha proposto in maniera credibile, quale sinistra europea negli ultimi anni ha davvero invertito il trend di razionalizzazione del welfare?”.

Per Orsina, i socialdemocratici soffrono un doppio vincolo. Da una parte la scarsa fattibilità di cambiamenti di paradigma radicali: “Reintroduciamo in Europa le barriere doganali per proteggere il lavoro?”. Dall’altra c’è la consapevolezza diffusa tra gli elettori dell’insostenibilità del welfare attuale: “Si pensi alle difficoltà della sinistra nel sostenere di fronte all’opinione pubblica l’elargizione di sussidi generosi e allo stesso tempo politiche più liberali sull’immigrazione”. Ergo, chi vota finisce per “affidarsi a chi garantisce una gestione più pragmatica della situazione attuale”.

Giuseppe Berta, docente alla Bocconi e autore per il Mulino del libro “Eclisse della socialdemocrazia”, esordisce ragionando sul de profundis che il re olandese, Willem Alexander, ha pronunciato la settimana scorsa rispetto al tradizionale modello di welfare locale, cita en passant il caso dell’immigrazione per dimostrare che la sinistra riformista in Europa non è al passo del “cambiamento della sua base sociale”: “L’Spd, come riferimento del suo elettorato, prende ancora l’operaio sindacalizzato, maschio, bianco. Ma ormai la forza lavoro è molto più eterogenea per mansione, età e genere, per non parlare degli effetti delle grandi migrazioni. Soprattutto, una volta imbrigliati nell’euro, i partiti di sinistra vedono sgonfiarsi tutte le loro proposte di policy e regolazione che funzionano solo nell’orizzonte nazionale, si pensi alle politiche neocorporative”. Non che i conservatori abbiano interpretato al meglio ogni cambiamento in corso: “L’elettorato però, non essendoci alternative programmatiche, vota l’ostinata efficacia con cui Merkel, per esempio, persegue la sua linea”. Per Berta occorrerebbe una nuova “capacità programmatica alternativa. Si pensi che durante la crisi degli anni 30 la sinistra pose le basi del suo dominio con l’asse programmatico Keynes-welfare. Oggi c’è una grande timidezza ideale. E manca anche l’autorevolezza per dire agli elettori che si è capaci di amministrare politiche alternative”.

Luciano Pellicani, sociologo ed ex direttore di Mondoperaio, ricorda come già il politico svedese Olof Palme negli anni 70 avesse avvertito che “lo stato sociale aveva dato quel che poteva dare”. Quella “welfarista” è stata una “rivoluzione epocale”, ma Palme avvertiva “che il capitalismo è come una pecora che va tosata. Se oggi la pecora non è in salute, cosa tosiamo? Senza grande espansione economica, banalmente mancano le risorse”. Poi c’è un problema di “riduzione della base di riferimento”: “Se già negli anni 80 Peter Glotz parlava di ‘società dei due terzi’, dove i due terzi dei cittadini hanno raggiunto il benessere, oggi non si può ancora pensare di prendere a riferimento soltanto un elettorato sindacalizzato o poco più”. Comunque, in tempi di crisi e di confusione sulle soluzioni possibili, “una fase di ‘pendolo’ tra destra e sinistra è probabile”. Conclude Olaf Cramme, direttore del think tank Policy Network, vicino ai laburisti inglesi: “Con gradazioni diverse da paese a paese, la sinistra europea è accomunata da un problema di scarsa comprensione della crisi finanziaria. La crisi è stata letta come il fallimento del mercato e del capitalismo, e invece è stata una crisi di deficit e debito pubblici. I cittadini hanno opinioni contrastanti, ma in generale percepiscono che la soluzione non può essere un ritorno del ‘tassa e spendi’. Pesa ovunque, infatti, anche un pregiudizio verso le capacità di gestione dei politici, pure in materia di welfare state”.

di Marco Valerio Lo Prete   –   @marcovaleriolp, FQ. 24/9

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