Consigli a Letta per privatizzare senza

farsi illusioni. Parla il prof. Barucci

Un piano di privatizzazioni ci sarà. Lo ha promesso due giorni fa il presidente del Consiglio, Enrico Letta, e ci sta lavorando il ministro dell’Economia, Fabrizio Saccomanni. Anche se “in questo momento non esiste alcuna ipotesi”, ha subito precisato ieri il ministro dello Sviluppo economico, Flavio Zanonato, rispondendo al question time alla Camera, in una giornata di polemiche sull’argomento dopo le frasi in mattinata di Stefano Fassina (Pd), viceministro dell’Economia (“Il Pd è radicalmente contrario a ipotesi di privatizzazioni delle società a partecipazione statale come Eni, Finmeccanica, Enel e le altre principali partecipate”) e gli attacchi di Beppe Grillo. Privatizzare per qualcuno non sarà bello ma certo è necessario. Per ridurre il debito, per dire ai mercati che l’Italia è credibile. E sarà un piano “largo”, come ha detto Letta. Che coinvolgerà direttamente le società interamente in mano pubblica: Ferrovie, Poste, Anas, Sace, Sogin e altre entità minori. Mentre appare velleitario che lo stato possa ridurre le quote che mantiene in Eni, Enel, Finmeccanica, Terna o Snam. Perché in questo caso significherebbe perdere la gestione di aziende strategiche per la politica industriale del paese. L’altro livello – anche più complesso – è il comparto locale. Ci sono oltre quattromila società, feudi della politica locale, che potrebbero essere privatizzate per avere meno debito nel settore pubblico, più opportunità in quello privato e servizi magari più efficienti per i cittadini. “Il mio consiglio è di agire su quattro livelli per privatizzare al meglio”, dice al Foglio Emilio Barucci, 45 anni, docente di Matematica finanziaria al Politecnico di Milano, figlio del ministro del Tesoro, Piero Barucci, che diede il via nel 1992 alla stagione delle privatizzazioni italiane, e uno dei massimi esperti del settore (autore con Federico Pierobon di “Stato e mercato nell’economia della Seconda Repubblica: dalle privatizzazioni alla crisi finanziaria”, Mulino). “Il primo livello è quello di limare le partecipazioni di aziende quotate a controllo pubblico senza scendere sotto la quota del 30 per cento che permette di mantenerne il controllo. Secondo: agire sulle società a controllo pubblico non quotate, gli spazi sono pochi ma si potrebbe andare a cercare tra Poste, Rai, Anas, Fincantieri. Terzo: piano di dismissione degli immobili da parte degli enti locali legando lo stesso a un allentamento del patto di stabilità. Quarto: gli incentivi all’aggregazione e poi privatizzazione delle municipalizzate”. La terza e la quarta strada “sono le più interessanti ma richiedono tempo. Se si vuole fare in fretta non rimane che guardare alle società controllate dallo stato al 100 per cento”. Già, questo appare nell’immediato quello più fattibile. “Ma le risorse sarebbero comunque limitate – sottolinea Barucci – se si escludono Anas e Ferrovie che hanno un patrimonio significativo, non arriveremmo a 10 miliardi di euro. Bisogna poi capirsi: privatizzare per finanziare la spesa corrente non è una grande idea”. Quel che è certo per Barucci è che “sarebbe un errore cedere le quote di Enel, Eni o Finmeccanica. Le privatizzazioni non hanno visto nascere multinazionali private basate in Italia. Le multinazionali italiane oggi si contano sulle dita di una mano e la metà sono pubbliche. Cedere le loro quote significherebbe ‘perderle’, e mentre mi preoccupo limitatamente della perdita di Loro Piana e di Bulgari – dice Barucci – mi preoccuperei assai se Eni o Enel passassero in mano di Edf o di E.On”.

E allora oltre a puntare su una graduale messa sul mercato delle quote di società interamente pubbliche, l’altra strada è puntare sull’universo delle aziende pubbliche locali. “Occorre aggregarle e poi creare le condizioni per privatizzarle rafforzando il ruolo di regolatore a livello locale”, spiega Barucci che invece boccia l’idea di creare un fondo con gli immobili pubblici da quotare in Borsa il cui ricavato possa andare al Tesoro. “Idea che ritorna spesso di moda – dice – ma che non ha alcun grado di praticabilità finanziaria: difficile trovare investitori disponibili a divenire azionisti di un fondo del genere. I mercati amano le cose chiare e non contenitori con dentro la stazione ferroviaria e il palazzo del comune dismessi. Ogni immobile richiede una valorizzazione ad hoc. E’ un processo lungo e complesso”. In definitiva, comunque, le privatizzazioni in Italia sono state un’esperienza positiva, da ripetere? “Più positiva che negativa. Se si escludono alcune privatizzazioni fatte male, su tutte Telecom e Autostrade, le privatizzazioni hanno contribuito ad abbattere il debito pubblico, favorendo quindi l’adesione dell’Italia all’euro, e hanno permesso di risanare aziende che non erano gestite al meglio dall’azionista pubblico. Sul fronte negativo – continua lo studioso – abbiamo il fallimento della classe imprenditoriale, vecchia e nuova, che non ha colto l’occasione per sviluppare le attività: non sono sorti nuovi ‘capitani di industria’. Le privatizzazioni hanno però fornito l’illusione di poter percorrere una scorciatoia, se vogliamo – conclude Barucci – C’era bisogno di privatizzare nei primi anni 90, non c’è dubbio, ma i problemi del paese richiedevano ben altra cura e non potevano essere risolti soltanto tramite uno choc di privatizzazioni e liberalizzazioni”. Letta e Saccomanni sono avvisati: attenzione a non ripetere gli errori del passato.

di Giancarlo Salemi, 2/8 F.Q.

Solo gli utenti registrati possono commentare gli articoli

Per accedere all'area riservata