Far lavorare stanca. Il monito di Marchionne

ha molto a che vedere con la malagiustizia

La situazione d’incertezza giuridica in materia di diritto sindacale, denunciata da Sergio Marchionne e da lui giudicata incapacitante per l’iniziativa industriale in Italia, ha ottenuto una certa attenzione solo perché era accompagnata dalla minaccia di costruire i nuovi modelli dell’Alfa Romeo all’estero. Sul merito della situazione incredibile di mancanza di certezza del diritto, sancita dalla decisione della Consulta di dichiarare incostituzionale l’articolo 19 dello Statuto dei lavoratori, architrave finora delle relazioni industriali, non c’è stato alcun approfondimento critico. Si vede che il livello di assuefazione alla droga dell’interpretazione variabile delle leggi a seconda delle opinioni o convenienze politiche è ormai tale che non si nota nemmeno più. La Fiat è stata considerata colpevole di discriminazione nei confronti del sindacato dei metalmeccanici della Cgil, la Fiom, perché ha applicato la legge che garantisce i diritti di rappresentanza solo alle sigle firmatarie degli accordi collettivi. Quella legge, sulla quale si è basata la contrattazione per mezzo secolo, è stata dichiarata incostituzionale e così si sono ribaltati i termini della situazione: la Fiat che ha applicato la legge ha torto, la Fiom che, contro la legge, pretende la rappresentanza anche senza accettare gli accordi stipulati (e approvati da referendum tra i lavoratori), ha ragione. La Costituzione prescriveva il riconoscimento giuridico dei sindacati come condizione per la rappresentanza, ma quella norma non è mai stata applicata. Quindi tutto è avvenuto fuori dai canoni costituzionali, ma ci si rende conto di questo solo per dare torto alla Fiat, che ha tutte le ragioni per lamentarsi. D’altra parte, in un paese in cui questioni essenzialmente politico-sociali vengono di fatto sequestrate dalla magistratura, spesso con intenti demagogicamente anti industriali, non ci può essere certezza del diritto. Basta ripercorrere la vicenda dell’Ilva, il rifiuto della magistratura di applicare le leggi che man mano governi e Parlamento approvavano, magari con sentenze in cui si considerava l’obiettivo di ottenere profitto dall’attività d’impresa un reato o almeno un’aggravante.

Non si può poi dimenticare che, mentre le imprese maggiori debbono districarsi dalle interpretazioni faziose di una magistratura anti industriale, tutte e soprattutto quelle minori subiscono l’inefficienza e l’insopportabile lungaggine della giustizia civile, che rende di fatto inesigibili i crediti. Ne deriva un fenomeno di insolvenze a catena che, in una fase recessiva, diventa una forma di strangolamento dell’attività industriale. L’affermazione di Marchionne che in Italia non c’è un clima favorevole all’industria, in queste condizioni, è persino reticente. Redazione F.Q. 1/8

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