Perché la Farnesina non conta più

“Il ministero degli Esteri ormai viene sistematicamente

scavalcato dagli altri organi dello stato”, dice Sergio Romano. Una riforma sbagliata e l’irresolutezza collegano la guerra di Libia, i Marò e l’affaire kazaco

“Sulla vicenda Shalabayeva ritengo che ci siano ancora punti oscuri che altre istituzioni devono chiarire”, dice il ministro degli Esteri Emma Bonino, che domani riferirà in Senato sulla storiaccia kazaca. In attesa delle parole del ministro, nei corridoi più riparati della Farnesina, agitati come non mai, già si specula sulle “altre istituzioni” allusivamente citate da Bonino: non soltanto il ministero degli Interno guidato da Angelino Alfano, rimasto impigliato nell’affaire Ablyazov, ma pure i servizi segreti. “Nessuno ci ha mai informato di nulla”, ripetono agli Affari esteri, come una cantilena cui alcuni non credono, ma che altri ritengono plausibile. E persino più preoccupante. Sergio Romano, l’editorialista del Corriere della Sera, l’ex ambasciatore, non si stupisce, “la Farnesina viene sistematicamente scavalcata”, dice il professore, osservatore titolato delle questioni diplomatiche. “I rapporti internazionali non passano più direttamente e soltanto dal ministero degli Esteri”, spiega Romano, “il mondo è cambiato. Ciascuna istituzione del nostro paese ha una sua, autonoma, proiezione internazionale. Basti pensare al caso banale delle riunioni interministeriali europee, tra i ministri dell’Economia, dello Sviluppo, della Difesa. Persino le regioni hanno una loro politica estera. I ministeri sono abituati ad agire in proprio, e la Farnesina non ce la fa a tenere insieme le file di tutto. Abbiamo un sistema istituzionale complessivamente inadeguato”.

Dall’interno del ministero dicono che la macchina diplomatica italiana si è inceppata, e da alcuni anni ormai. La Farnesina è precipitata nell’immobilità su molti dossier intorcinati, dicono, e con effetti talvolta tremendi sugli interessi economici e strategici dell’Italia nel mondo. Dall’interno del ministero in molti assolvono (anche se non del tutto) la guida politica. La recente riforma delle direzioni generali sarebbe la causa dell’impasse disarmante che collega tra loro gli ultimi pasticci diplomatici italiani: la guerra di Libia del 2011 (ministro Franco Frattini), la storia dei due Marò consegnati agli indiani per indecisionismo (ministro Giulio Terzi di Sant’Agata), e infine il caso della signora Shalabayeva, rispedita assieme alla figlia in Kazakistan come un pacco indesiderato, una merce avariata. “La guerra di Libia è stato un caso evidente d’incapacità nel difendere interessi strategici nazionali”, conferma Romano, “quella guerra fu combattuta con nostro grande imbarazzo su pressione della Francia e dell’Inghilterra. In quel frangente noi capimmo subito che andava all’aria il nostro sistema di rapporti economici privilegiati con quel paese. Tutti ricordano che c’era un patto commerciale stipulato dal governo Berlusconi”. E anche allora, come oggi, la Farnesina stava da una parte (con i francesi e gli inglesi), mentre il presidente del Consiglio, come pure i servizi segreti, erano all’inizio riluttanti, tormentati, dubbiosi fino all’ultimo, persino contrari al conflitto. Non c’è un legame cristallino tra la guerra di Libia, il caso più recente dei Marò e la “bruttissima figura” (parole di Bonino) fatta dall’Italia nell’affaire kazaco, eppure dall’interno del corpo diplomatico emerge un mormorio che collega questi tre casi, coinvolge i tre ultimi governi, Berlusconi, Monti, Letta, e denuncia uno stato di “confusa debolezza” della struttura diplomatica, dei suoi rapporti con i servizi segreti, quelli che Alfano chiama in causa nei suoi colloqui più privati (“siamo stati coinvolti in un gioco più grande di noi”), e con gli altri ministeri. Come dicono al Foglio nelle stanze ovattate della diplomazia: “Se un direttore generale degli Esteri telefona a un capo dipartimento di un altro ministero qualsiasi, il più delle volte quello neanche risponde”. Ed è così che il 15 febbraio 2012 Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, i due Marò tuttora lontani da casa, vennero consegnati alle autorità indiane. Il ministero degli Esteri non sapeva risolversi e nell’irresolutezza generale, mentre alla Farnesina ci si rimpallava la grana da un ufficio a un altro, fu l’armatore della nave che ospitava i fucilieri a decidere, facendoli sbarcare.

Nel 2010, per rispondere alle logiche di maggiore integrazione internazionale, il ministero degli Esteri si riformò, superando la tradizionale divisione delle direzioni generali per aree geografiche di competenza, “una logica – spiega Sergio Romano – che corrispondeva al vecchio sistema ormai superato dei rapporti bilaterali tra stati”. Sotto la supervisione di Giampiero Massolo furono create, accanto alle altre, due grandi direzioni generali, “sistema paese” e “mondializzazione”. Le due strutture, e il resto delle direzioni, hanno funzionato, almeno nella lunga fase di rodaggio, almeno finché il loro creatore, Massolo, accentratore e regista, è rimasto al ministero nel ruolo di segretario generale degli Affari esteri, il funzionario più alto in grado nella struttura amministrativa. Poi, col ministro Giulio Terzi di Sant’Agata, qualcosa ha cominciato a non funzionare più, e il sistema a scricchiolare vistosamente. I funzionari della Farnesina raccontano che le competenze delle due grandi direzioni generali si accavallano tra loro e con quelle delle altre sei direzioni generali con l’effetto, sussurrano dall’interno del corpo diplomatico, “di avere abbassato il livello di rappresentanza degli Esteri rispetto agli altri ministeri. Nessuno si prende la responsabilità di nulla, c’è molta paura di sbagliare. Nella confusione dei ruoli prevale la prudenza, se non, talvolta, la viltà”.

La riforma fu ispirata dall’idea di aggiornare il ministero, di renderlo più incline alla cosiddetta diplomazia commerciale che in America ha animato la politica del dipartimento di stato di Hillary Clinton. Come spiegava una nota della stessa Farnesina del 21 dicembre 2010: “I riflettori, con la riforma, saranno puntati sulle opportunità di business per le imprese italiane nei cinque continenti”. Ma da quel giorno i pasticci con i mercati emergenti, con l’oriente e l’Asia dominata dall’India (quella dei Marò), dove l’Italia cerca di vendere i suoi prodotti per sopperire alla scarsa domanda interna, hanno invece spesso guastato i potenziali rapporti commerciali. “Anche il caso della guerra in Libia è stato lampante”, come ripete il professor Romano. Nel 2011 la Farnesina ha chiuso l’IsIAO, il glorioso Istituto Italiano per l’Oriente fondato da Giovanni Gentile e Giuseppe Tucci nel 1933, che promuoveva i rapporti commerciali e culturali con le grandi nazioni asiatiche. “La penetrazione economica richiede competenze, organico, finanziamenti, e una coesione del mondo degli esportatori. Tutte cose che non abbiamo”, dice Romano. Alcuni anni fa Umberto Croppi, allora assessore alla Cultura del comune di Roma, si recò ad Abu Dhabi per cercare, in collaborazione col ministero degli Esteri, finanziamenti per un polo museale internazionale legato all’enorme patrimonio archeologico di Roma. Arrivato in medio oriente, Croppi scoprì di avere fatto un viaggio a vuoto, che i soldi del petrolio li avevano già incassati i francesi del Louvre. E bisogna immaginarsi la sua faccia, quando si è rivolto all’ambasciatore italiano e ai suoi accompagnatori degli Affari esteri: “Ma non potevate dirmelo prima?”. Come per l’affaire Ablyazov, anche allora, e questo di Croppi era evidentemente un caso meno delicato, la Farnesina non sapeva nulla.

© - F:Q.di Salvatore Merlo   –   @SalvatoreMerlo

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