Ecco la road map dei generali per sloggiare i Fratelli

Musulmani. Dissolvere il Parlamento, annullare la Costituzione

e formare un governo ad interim trasversale e con tecnici

Anche l’Egitto diviso tra i sostenitori del governo della Fratellanza musulmana e gli egiziani delusi che occupano le piazze imbocca la strada del governo tecnico – ma in questo caso tutto quello che c’era prima di oggi, la Costituzione, il Parlamento e l’incarico presidenziale, sarà stravolto. Scade oggi alle cinque ora italiana l’ultimatum annunciato dai generali egiziani al rais Mohammed Morsi, a cui è stato imposto di risolvere l’attuale crisi politica – sono parole vaghe, ma così dice il comunicato dei militari – in accordo con l’opposizione che mobilita milioni di manifestanti. Il tempo però è così breve per un compito così arduo che le 48 ore rappresentano poco più che una formalità cortese concessa dall’esercito. Se Morsi entro le cinque non trova l’accordo e fallisce, allora secondo fonti di Reuters arriva la “road map”, a cui faceva cenno il comunicato di lunedì: i militari annulleranno di fatto la Costituzione attuale e instaureranno al potere un esecutivo ad interim formato soprattutto da civili – notare il “soprattutto” – provenienti da gruppi politici diversi e da tecnocrati esperti, per guidare l’Egitto fino a quando non sarà scritta una nuova Costituzione “nel giro di mesi”.

Dopo la Costituzione arriveranno anche nuove elezioni presidenziali; per quelle parlamentari invece si aspetterà che siano in vigore nuovi, severi requisiti per i candidati (questa formula è lasciata sospesa, senza spiegazioni, ma è verosimile che la selezione danneggerà i partiti islamisti). Nel frattempo il Parlamento sarà dissolto.

Allo scadere dell’ultimatum di oggi i generali consulteranno la fazione principale dell’opposizione, il Fronte di salvezza nazionale, altri gruppi politici e religiosi e anche le organizzazioni dei giovani. Il Fronte aveva proposto un piano di transizione democratica che assomiglia molto a questa “road map” dei militari e lunedì ha nominato come portavoce la figura blanda di Mohamed ElBaradei, ex capo dell’Agenzia nucleare delle Nazioni Unite. “Le fonti non dicono – scrive Reuters – che cosa farebbero i militari se Morsi non accettasse di andarsene senza creare problemi”. Un’omissione che suona minacciosa.

In mattinata era arrivata una doppia telefonata da Washington al Cairo: il presidente americano, Barack Obama, ha chiamato Morsi e il suo capo di stato maggiore, Martin Dempsey, ha sentito il capo di stato maggiore egiziano, Sedki Sobhi, per spingere le parti verso la soluzione politica morbida. Le relazioni militari tra i due paesi sono sempre state robuste anche nei tempi di crisi politica e il canale di comunicazione con le stellette ha già funzionato egregiamente nel 2011 durante la rivoluzione popolare contro Mubarak, grazie al miliardo di dollari di aiuti che Washington elargisce ogni anno ai militari egiziani. Obama e Dempsey sono corsi alla cornetta perché hanno il timore fondato che questa crisi politica in corso spinga l’Egitto verso lo status di “failed state”, di stato fallito. Come nota con disincanto l’analista Ron Ben Yishai sul quotidiano israeliano Yedioth Ahronoth, la sollevazione contro Morsi non risolleverà l’economia a breve

termine, aggraverà la paralisi dell’apparato di sicurezza (la polizia soprattutto) che già non esercita più il suo controllo su alcune aree del paese – come il Sinai – e creerà un precedente pericoloso perché svuoterà di significato le istituzioni democratiche – Parlamento, presidenza e governo – che cedono alla spallata congiunta di piazza e generali. Le elezioni dell’anno scorso oggi sono irrilevanti (Ben Yishai nota anche di passaggio che questa debolezza dell’Egitto avvantaggia Israele).

Che l’esercito stesse soltanto aspettando l’occasione giusta si capisce da quel dato esagerato che ha diffuso domenica, “17 milioni di manifestanti nelle strade”, perfetto per giustificare la minaccia di un golpe implicita nell’ultimatum che scade oggi. Del resto già a dicembre il generalissimo Abdel Fattah al Sisi era entrato nel discorso politico chiamando le parti “al dialogo” durante gli scontri davanti al palazzo presidenziale e un mese dopo aveva ammonito: “La continuazione del conflitto tra le diverse forze politiche e le differenze su come condurrebbero il paese potrebbero portare al collasso dello stato e minacciare le generazioni future”. Testo sottinteso: “Noi non lo permetteremo”. Insomma, al Sisi agitava lo spauracchio di un golpe militare per rimuovere una leadership incompetente, una scorciatoia fin troppo percorsa nel mondo arabo (40 colpi di stato soltanto tra il 1945 e il 1979). Tanto che, quando il presidente Morsi mandò i militari a far rispettare il coprifuoco durante i disordini di gennaio a Port Said e a Ismailia, quelli se ne infischiarono e giocarono a pallone con i manifestanti.

Daniele Raineri, FQ 3/7

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