Fedeli alla base, infedeli alla linea
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La deriva anarco-grillina del Pd è peggio dei vecchi franchi tiratori
L’autoaffondamento della candidatura di Franco Marini da parte dei parlamentari del Partito democratico, e quella per molti versi ancora più clamorosa, ieri, di Romano Prodi (scelto come frontman quirinalizio solo poche ore prima, in una bizzarra parodia delle primarie) sono state assimilate da più di un commentatore ai famosi casi primorepubblicani dei “franchi tiratori”. Ossia quelli in cui i candidati ufficiali della Democrazia cristiana per il Quirinale non ottennero i consensi previsti, per effetto dell’infedeltà alle decisioni di partito da parte di parlamentari nascosti dal voto segreto. Ma il fenomeno di allora dei franchi tiratori è cosa del tutto diversa dalla rivolta esplicita di oggi, e dal rifiuto di accettare la disciplina di partito: apertamente teorizzato e anzi rivendicato come un diritto da parte di decine e decine di parlamentari democratici. E’ un cambio di prospettiva e di consapevolezza politica notevole, e a ben guardare anche grave, se non pericoloso. Il fatto è che di fronte alla scelta democraticamente effettuata da un partito, si è teorizzata apertamente la superiorità morale e politica della fedeltà all’elettorato (ovviamente una fedeltà supposta e del tutto virtuale, visto che viaggia soprattutto sui media e sui social network) su quella ai vertici, cioè agli organismi di partito e di gruppo che rivestono la responsabilità statutaria di adottare le scelte e di verificarle, com’è accaduto anche all’assemblea del Capranica, dove comunque si era espressa una maggioranza a favore della candidatura di Marini.
La differenza dal fenomeno dei franchi tiratori è macroscopica, proprio perché la rivolta esplicita mette in discussione il sistema di legittimazione delle scelte interno al partito, il che ovviamente apre una crepa assai profonda nella stessa forma-partito, mentre l’infedeltà espressa segretamente su specifiche candidature (e in qualche caso su articoli di legge) aveva effetto soltanto su quelle scelte. Oltre alla qualità del dissenso che mette in crisi la democrazia interna di partito, sostituendola con una confusa “corrispondenza” diretta con l’elettorato che in sostanza coincide con una concezione anarchica, naturalmente va considerata la dimensione quantitativa della ribellione alla scelta indicatadal segretario Pier Luigi Bersani, oltre alla rottura dell’intesa con l’alleato di coalizione Nichi Vendola.
Se più o meno la metà dei grandi elettori vota in dissenso, vantandosi di aver dato voce alla volontà della “base”, significa che il gruppo dirigente non è in grado nemmeno di calcolare la dimensione del disagio o addirittura dell’ostilità che suscita in una parte consistente del partito. Il problema che si è reso palese in modo così ampio, per la verità, non si può circoscrivere alla serie di scelte adottate e poi contraddette da Bersani. Bersani ha commesso e continua a commettere errori, la cui origine comune è la convinzione che il mancato successo elettorale del suo partito sia la conseguenza di un deficit di radicalismo. La sua predicazione generica del “cambiamento”, la richiesta di un viatico in bianco da parte delle altre formazioni politiche, l’idea bizzarra di governare con i grillini e di eleggere il presidente della Repubblica con il centrodestra (salvo poi invertire i termini del problema improvvisamente e senza spiegazioni), ha creato una situazione di incertezza nelle file del suo partito, di cui ha potuto approfittare il suo antagonista nelle primarie, che non ha dovuto faticare un granché a silurare le sue proposte. Va detto, però, che anche a parti invertite, con il sindaco di Firenze alla guida del partito, il rischio di un rifiuto permanente della disciplina di partito da parte dei suoi oppositori interni, probabilmente si presenterebbe con caratteristiche analoghe.
Il punto critico sta infatti più in profondità: nel mancato riconoscimento delle procedure di democrazia interna al partito e ai gruppi come fonte di legittimità delle decisioni e, quindi, di obbligo di convergenza. Per una sciagurata imitazione (ma verrebbe da dire contagio virulento) del fenomeno grillino e del suo ricorso a forme di “democrazia telematica”, prive ovviamente di trasparenza e in ogni caso con una base arbitraria (che una formazione può decidere di accettare, ma che non può ovviamente essere imposta come regola ad altri), anche nel più strutturato dei partiti italiani c’è oggi chi giustifica la mancanza di rispetto del principio di maggioranza e quindi il rifiuto della disciplina, come effetto di una obbedienza alla “volontà della base”. Naturalmente bisogna distinguere tra forme organizzate di consultazione della volontà dell’elettorato, come le primarie, e forme suggestive di pressione dalla base, che spesso sono la conseguenza di campagne mediatiche o addirittura di influenze esterne. In realtà si può dubitare che la spinta a non sostenere la candidatura di Marini o Prodi sia venuta davvero dal basso e non, invece, come accadeva anche nella Democrazia cristiana, da capi e capetti delle correnti che coltivano disegni alternativi a quelli sostenuti dal segretario.
Se sia stata questa campagna “dall’alto” o le proteste espresse sulla rete o in qualche peraltro sparuta manifestazione di strada (enfatizzata in modo esasperato da qualche emittente televisiva) il fattore prevalente nella costruzione della valanga del dissenso, è difficile sapere. Il fatto è che in questa tenaglia qualsiasi sistema di decisione politica organico, come quello di un partito organizzato, rischia di essere stritolato. Il Foglio, 20/4