Aridanga D’Alema. Antipatico, realista, capace
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e baby boomer. Endorsement di ieri che vale oggi
"Aridanga”, faccio di nuovo endorsement, sette anni dopo. Doppio, diciamo che vale anche per il 2020 in caso di matura scomparsa. Per la presidenza della Repubblica un solo nome: Massimo D’Alema. Da eleggere alla prima votazione e tanti applausi. Detestato da tanti, malvisto da troppi, è l’uomo giusto per il Quirinale, la sua febbrile divorante ambizione qui si appagherebbe e potrebbe finalmente dare al paese il meglio di sé. E checché se ne pensi, è tantissimo. Sul piano simbolico significherebbe anzitutto il ritorno orgoglioso di una politica vilipesa e tenuta sotto schiaffo, la conferma definitiva che la salvezza viene dal mestiere, altro che questi dilettanti che per aver raggiunto una qualche notorietà in specifiche professioni, attori, medici, imprenditori, magistrati e dio ce ne scampi giornalisti, pensano di sapere e salgono o scendono in politica. Invece non sanno e affogano. Con D’Alema per la prima volta siederebbe al Quirinale qualcuno nato nel Dopoguerra e figlio del baby boom. Ha undici anni meno di Guliano Amato, che sono tanti in un paese per vecchi e pure quelli giusti. Quando il trentenne ex socialista faceva master o insegnava in una qualche università inglese, il ventenne D’Alema si formava nelle strade, nelle piazze cercando di capire e in parte contrastare la meravigliosa feccia rivoltosa dell’epoca. Con lui al Quirinale avremmo il primo presidente senza il ricordo bruciante degli anni della fame e del dolore. Per cultura in grado di smontare parte della mitologia costruita attorno alla Liberazione, alla guerra partigiana e tenuta su dal corsetto della retorica. Sentiremmo finalmente parole stringate, asciutte di qualcuno che non si sente quindi nostro padre né nostro zio. Dicono che non abbia molto le physique du rôle, ma non è che gli altri abbaglino. Quasi tutti lo trovano supponente: Andreotti diceva di non avere una grande opinione di sé solo che poi si guardava intorno e non riusciva a vedere di meglio. D’Alema lo stesso. E’ antipatico sì: ma come chiunque sia convinto di avere abbastanza qualità da realizzare le proprie ambizioni senza abbassarsi a piacere a ogni costo.
A differenza di Amato, che come si dice nel calcio è molto abile a partire da dietro, D’Alema ha sempre dato battaglia in area, a viso aperto e a muso duro. Ha preso calcioni negli stinchi, perso spesso anzi quasi sempre, ma le qualità emergono anche dalle partite che si giocano e da come si perde: solo chi non si batte esce dal campo con la maglietta pulita. Ha preso in contropiede il gruppo dirigente del suo partito, arruffato il pelo del suo elettorato. Osò definire la televisione commerciale conquista di libertà e non tempio della volgarità come hanno fatto – e ancora fanno – tanti “compagni”, difese Fininvest e Mediaset perché parte del patrimonio imprenditoriale nazionale, bollò come una solenne sciocchezza il referendum voluto dal Pds. Non è mai caduto nella trivialità intellettuale di chi instancabilmente ci ammannisce l’idea che Berlusconi vince perché ha le televisioni. Non si è mai accodato ai lestofanti che pensano di eliminare gli avversari per mano giudiziaria. L’indomani delle elezioni del 2006 disse che l’Italia era divisa in due da un muro e che ci volevano larghe intese. Ha sempre messo in avanti la riflessione politica e cercato un ragionevole compromesso per dare forme stabili alla Seconda Repubblica. Le varie proposte discusse nella Bicamerale da lui presieduta erano più che decenti: Bossi, Fini, Prodi e Veltroni segarono le quattro gambe del tavolo che Berlusconi si affrettò a rovesciare. Il fatto che da allora il problema sia stato affrontato – male – due volte, con un referendum abrogato e un colpo di mano di un’altra maggioranza, sia ancora irrisolto e Bersani provi oggi a vendere improbabili convenzioni istituzionali è una vendetta postuma: vide più lontano delle zitelle che ancora osano chiamare inciucio un compromesso. D’Alema sa che il cambiamento non esiste se non è messo in forma e crede che la Costituzione sia da rivedere. A suo tempo provò anche a fare uscire la Cgil dalla ridotta Cofferati. Non ci riuscì. Ma aveva ragione lui visto che il problema centrale delle relazioni industriali è lo stesso anche oggi. Ha subìto molte sconfitte, dunque, ma non ha mai sbracato e ha mantenuto dignità. Dal Quirinale, sarebbe anche il buon architetto che aiuta a ridisegnare le istituzioni, a renderle agili, efficienti. Finalmente normali.
di Lanfranco Pace, da il Foglio, 18/4