Pauperopoli
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S’avanzano, in politica e non solo, i pentiti del maxi stipendio Un modo furbetto
per lisciare il pelo alla crisi e mettersi al riparo
“I soldi sono una cosa seria. Qualcuno è persino convinto che parlino” (Charles Bukowski)
“Si tratta del diritto a essere disuguali” (Margaret Thatcher)
Far finta di essere poveri, invece che sani, certe volte ha un costo che la stessa (cafona) ostentazione del soldo non aveva. E siccome la politica (come il governo, come l’informazione) consiste più o meno nell’arte di “organizzare l’idolatria” (G. B. Shaw), adesso è il momento di beatificare e innalzare di una sorta di nuovo pauperismo – con tanto e tale ardore che, se non fa attenzione, pure Papa Francesco rischia di farsi oscurare la sua saggissima vocazione. Ognuno tiene a far conoscere quello che non ha, ciò che non possiede, la rinuncia fatta, il sacrificio compiuto, il taglio che si è inflitto. Una dolente processione di pentiti delle carte di credito, di ravveduti rispetto alla diaria, di redenti dal maxi stipendio. Zoccolanti dell’era nuova che s’annuncia, eletti scalzi e monacali, società civile anelante a farsi ordine mendicante, dolciniani furenti, comunardi ardenti, sventurati felici. E’ il poveraccismo istituzionale che s’innalza a etica, l’etica a predica, la predica a ideologia. Più che mai luterano sterco del diavolo, il vile denaro che rischia di macchiare la reputazione dell’immacolata politica, e del politico non meno immacolato, che verrà. Ognuno se ne tiene lontano, ognuno lo rinnega, ognuno lo rinfaccia: dannato, dopo aver tanto dannato. Dal proclama grillino sulla contabilità delle caramelle – in pratica la tolleranza zero applicata ai furti: se non nascondi la Golia, non prenderai nemmeno la tangente – è stato un crescendo surreale e stucchevole e soprattutto esibito: neanche fossero, invece che politici in cerca di legittimo consenso, casti fraticelli francescani invaghiti di Madonna Povertà – “l’amò con tenerezza / donandosi a lei tutto, / e tutto seppe darle / per conquistarle il cuore”, come nel canto di Marco Frisina. Del resto, le ere sociologiche segnano la politica italiana: quando andavano gli yuppie, trionfavano stronzi e arroganti (non che in seguito una benefica morìa ci abbia privato in modo significativo degli stessi); quando fu l’era delle mignotte, un po’ puttanieri ci si svelava tutti (o quasi); quando fu il momento degli alternativi new age, abbondavano gli happy hour presso i simil buddha bar, però comprensivi di ciambelline al farro. Ora altro s’impone – e male non sarebbe se come al solito, per eccesso di zelo, non si finisse tra il paranoico e il fanatismo: così che il superfluo abbonda e l’essenziale sfugge.
Meglio del merito, come sempre sono le facce che spiegano la situazione, il rinunciatario quotidiano – ormai non c’è sole che sorga senza che qualcuno annunci il calo del suo stipendio – che gagliardamente offre il suo piccolo autarchico impoverimento alla causa del più grande impoverimento nazionale, e dottamente ne disquisisce a parodia (malriuscita) dei monaci adunati nell’abbazia de “Il nome della rosa” – stretti tra il saggio Guglielmo da Baskerville e satolli delegati papali: “Ma la questione non è se Cristo fosse povero, ma se debba essere povera la chiesa. E povera non significa tanto possedere o no un palazzo, ma tenere o abbandonare il diritto di legiferare sulle cose terrene…”, e c’è esatta sensazione, dietro questo pubblico abbandono delle cose del mondo, di un certo miglior mirare proprio alle cose del mondo. Perché se qualcuno una parte di sé pare donare – alla buona causa, alla santa intenzione, alla gente bisognosa – è esattamente all’esaltazione di se stesso integrale che forse punta: mirate, o genti!, costui: non solo di noi tapini e derelitti si vuole occupare, ma a tanta cruda sorte sacrifica generosamente parte della sua borsa. Ci saranno pure le migliori intenzioni, dietro questo fiorire di volontarie donazioni, ma è anche un modo, vista l’aria che si respira, di non prendere in piena faccia il vento che tira, cercare di accoglierlo e di diventarne parte stessa. Un po’ come fanno certi animali per sfuggire ai predatori più feroci: si fingono morti perché passino oltre, così che il cacciatore consumi più avanti la sua mattanza. Dove una volta era richiesta sfrontatezza assoluta, assoluta mancanza di vergogna e di senso della misura, adesso l’opposto s’impone – più dell’opposto: la parodia, appunto. E’ la micragna che va esibita, è la povertà (povertà, poi…) indotta che viene mostrata, è il fingersi parte di una sorte collettiva, così da provare a preservare la propria personale sorte. E’ il neo poveraccismo spacciato per neo beatitudine (politica) – spintonato da vigorose campagne di raccolta firme: “Sono lontani i tempi in cui i politici si tenevano vestiti pieni di pulci per non gravare sui contribuenti”. Vestiti pieni di pulci? Ma che film è?
E’ la nascente mistica del pizzino, inteso quale scontrino di comprovato e giustificato esborso: a edificazione della buona novella società, non a saturamento delle arterie con insalubri mangiate. Il pizzino – sarà un volare di pizzini a stormi, a soffocamento come polline per gli asmatici, negli anni che verranno. Hai il pizzino di prova? Hai conservato il pizzino? “I pizzini sono una iattura”, è sbottato così l’insospettabile senatore grillino Francesco Campanella, sulle pagine dell’insospettabile Fatto. La fatica si sente, e il lesinare il soldo ancor di più. Leva e metti, più leva che metti, ecco il bilancio: “Spero che questo mese non sia indicativo. Altrimenti, lo dico chiaro: io me ne torno in Sicilia, non mi conviene stare qui” – che poi, se non è la rivoluzione un pranzo di gala, neanche lo tsunami dovrebbe evocare comode convenienze. Oltre la mistica del pizzino, “rinuncio allo stipendio” risulta il mantra più evocativo, l’ambarabà ciccì coccò dei nuovi politici sul comò, sorta di insensata disposizione in replica a insensatissima intimazione. Non è solo il logico e civile non rubare, dove tocca presidiare allo sbirro e al magistrato. E nemmeno l’altrettanto logico e civile non abbuffarsi, dove tocca presidiare alla politica (che molto poco presidiò) e il buonsenso, che quando non è praticato finisce col trasformarsi in pericolosissimo senso comune. Macché, è altro: rinunciare allo stipendio. E perché mai, se lo stipendio è dovuto, se l’incarico è svolto onestamente, se la capacità è stata certificata dal voto popolare (anche se più spesso l’incapacità certifica: ma questo la democrazia consente, e pure questo bisogna tenersi caro)? Certo, non si parla dell’evangelico “giusto nutrimento” – ché né il pane verrà a mancare, a costoro, e il companatico ancor di meno – ma pure questo travestirsi mediatico da povere vedove che donano per intero il proprio obolo ha qualcosa di stonante, di poco autentico, di esasperatamente studiato. Come se anche il lecito fosse mutato in abuso. Rinuncio allo stipendio, ha annunciato Giovanni Malagò appena nominato presidente del Coni: “Ho deciso di versare il mio appannaggio economico ad associazioni sportive, a società impegnate nel sociale” (annotazione classista: solo i ricchi chiamano appannaggio i soldi di fine mese, gli altri stipendio, i più mal messi salario). “Se sarò sindaco rinuncerò allo stipendio”, ha fatto sapere Alfio Marchini, candidato a Roma – e siccome son belli e prestanti e ricchi di loro, persino d’intelligenza forniti, si capisce che lo sforzo ben compensa lo spot. Ma se si presentasse un raccattapalle di bordo campo per il Coni, se si proponesse un operaio al Campidoglio, che dovrebbero fare per reggere il passo: sfidare l’indigenza? affidarsi alla meritoria opera del Don Guanella? gettarsi tra le braccia della Caritas?
I due assessori siciliani di breve durata, Franco Battiato e il professor Zichichi, il cantore dei “Mondi lontanissimi” e il teorico del SuperMondo, avevano entrambi, al momento della nomina, fatto voto di non ritirare lo stipendio. C’è il governatore della Toscana, Enrico Rossi: anche lui, qualche settimana fa, ha chiuso gli accrediti in banca: “Voglio con questo gesto sollecitare la burocrazia ministeriale e il governo a impegnarsi per sbloccare i finanziamenti dovuti e, soprattutto, voglio stare ancora più vicino ai cittadini in difficoltà”. Figurarsi, c’è sempre da stare vicino ai cittadini in difficoltà, cosa buona e ottima, patire con loro l’avvicinarsi della terza settimana del mese, scortarli idealmente tra gli scaffali dei discount, tenere d’occhio, insieme, la spending review e l’offerta tre per due. C’è una miriade di sindaci, di piccoli e piccolissimi paesi, che hanno fatto sapere di rinunciare al loro stipendio di primi cittadini: sempre con mirabile intenzione, si ribadisce – a sostegno di anziani bisognosi, di famiglie in difficoltà, di scuole in degrado: cosa nobile, ma pur sempre cosa singolare, dove non il maltolto viene restituito, ma del legittimo ci si priva. L’idea della politica e dell’amministrazione come beneficenza, come volontariato, è suggestiva ma piuttosto classista e alla fine pericolosa: se non sei Malagò o Marchini – con il cuore oltre l’ostacolo e il conto in banca oltre il necessario – che fai?
Chi può, comunque, il suo obolo corre a deporre, la sua ricchezza a spartire, il suo benessere a dividere. Come il santo vescovo Martino, scendono dal cavallo e con la spada tagliano pubblicamente il loro mantello per offrirne metà al mendicante infreddolito ai bordi della strada (del resto, visto mai, la leggenda ha una conclusione consolante: Gesù in persona riportò la metà del mantello al vescovo, perciò ottima figura e nessuna perdita). Ecco Monti che, “mi è sembrato doveroso come atto di sensibilità sociale”, salutare lo stipendio di presidente del Consiglio. Ecco la presidente Boldrini e il presidente Grasso che, in stereofonia, annunciano di far fuori il trenta per cento del loro, e subito saltar fuori il solito Grillo che vuole almeno una decapitazione del cinquanta per cento, “dimezzatevi lo stipendio e rinunciate all’indennità”, e la Boldrini e Grasso che a loro volta chiedono di tagliare anche ai dipendenti di Camera e Senato, “perché qui ci sono stipendi molto alti”, e quelli a far subito faccia dubbiosa e ad assumere aria pensosa. La faccenda della pensione di Amato, poi, è diventata una sorta di epica che viene sempre tirata fuori, e sempre il professore a ribadire che tutto il suo vitalizio da parlamentare va a far bene ad altri. Pure la Banca d’Italia ha voluto esser parte della tendenza in atto, così il governatore Visco si è dato una bella sforbiciata del trentacinque per cento, e gli altri di Via Nazionale a seguire. A proposito, curiosità d’annata: quasi sedici anni fa – quando la faccenda poteva essere considerata una curiosità e non un avanzare a falange macedone – con una secca lettera al Corriere il premier Ciampi, indicato dal quotidiano quale “simbolo dei superpensionati d’oro della Banca d’Italia”, significò di aver “rinunciato allo stipendio e alle indennità spettanti al Ministero del Tesoro e del Bilancio, allo stesso modo come rinunciai a suo tempo da Presidente del Consiglio”. Faccenda con qualche riflesso planetaria, questa: si accorcia lo stipendio Obama (che peraltro, rispetto alla media di quelli nostrani, prende più o meno quanto un qualunque ignoto presidente di qualunque non notissima authority: a volte meno), mette un tetto ai manager pubblici Hollande in Francia, in Svizzera c’è voluto un referendum per portare i troppi esosi a più miti consigli. E in Giappone, nei giorni della centrale di Fukushima, il primo ministro rinunciò allo stipendio, avendo il governo “grave responsabilità sull’incidente nucleare”.
Meglio sapere che lasciano piuttosto che prendono – peraltro mai abbastanza lasciano, così da lasciare nell’irrilevanza quel che resta. Persino i banchieri tagliano (e qui ci deve essere davvero la lama della spada di san Martino dietro), e a vedere certi stipendi di manager che i giornali mettono in fila c’è da credere che non solo metà del mantello potrebbero donare, piuttosto l’intera filanda. Bisogna pur riconoscere che le cifre contenute nel volume “La paga dei padroni”, di Giorgio Meletti e Gianni Dragoni, fanno impressione; come certe liquidazioni di milioni e milioni di euro; come l’analisi di uno studio della Banca d’Italia dell’anno scorso da cui risultava, sintetizzò il settimanale Oggi, che “i dieci italiani più ricchi hanno un patrimonio uguale a quello dei tre milioni di italiani più poveri”. Molti geni, di sicuro, in mezzo a tanti milioni, come la forfora sulle rade chiome del capoufficio in un film di Sordi. Ma fondamentalmente il problema, più che di odio sociale (che pure s’avanza, che pure si alimenta), è di merito: se li sono guadagnati, costoro, tutti quei quattrini? Esiste un rapporto tra il voluminoso prendere e il non sempre visibile parto di tanta sovrastimata genialità? Come dire: quello che (a volte) restituiscono è atto generoso o minimo atto dovuto? “Todos caballeros quando si diventa top manager”, ha sfottuto sul Giornale Nicola Porro. Meritati, quei soldi? “Sì, certo si troverà un tifoso irritato con Messi, ma è difficile che qualcuno contesti l’eccezionalità del suo talento e dunque l’effetto rarità (dunque minore offerta, domanda alta, prezzo che sale). Possiamo dire la stessa cosa dei nostri amministratori delegati? Quale azionista davvero si preoccupa per il suo portafoglio se un top manager dovesse lasciare l’azienda?” – ché anzi, sempre più spesso, nelle assemblee degli azionisti del contrario, si preoccupano.
C’è chi ha messo l’ondata pauperistica in corso direttamente in conto a Papa Francesco, che neanche i vecchi calzoni vuol smettere prima di averli consumati – a cominciare dalle accuse di ambienti del cattolicesimo tradizionalista, che chiamano in causa il curato d’Ars, “il quale, pur vivendo poveramente, amava dare tutto alla liturgia: indossava i paramenti più belli e amava il decoro della chiesa”. Il cardinale Bergoglio, molti anni fa, parlò della santità del vescovo legato alla sua povertà: “Uomo di cuore povero, è immagine di Cristo povero, imita Cristo povero, essendo povero con un discernimento profondo. La sua semplicità e austerità di vita gli conferiscono una completa libertà in Dio”. E ha spiegato Massimo Cacciari come le cose non possono essere confuse: “La scelta da parte della chiesa di una paupertas francescana, che non ha nulla a che vedere con quel pauperismo che alcuni commentatori hanno inteso e confondono. La povertà di Francesco significa fare un vuoto in sé per avere il luogo dove accogliere lo spirito”. Tutt’altra roba, si capisce, la mistica francescana dalla mistica del pizzino, il vuoto interiore per lo Spirito Santo e quello che tiene lo sguardo del cittadino eletto grillino fisso sui grandi lampadari accesi di Montecitorio a ragione del loro voler restare oltre l’orario di chiusura, e sembrano dei Macbeth in scena, “io qui mi sono satollato di orrori”, al solo conteggiare lampadine e kilowattori. “No, scusi, mi faccia capire: ma davvero tutte queste luci restano accese per colpa nostra?” – e che gli dovevano fornire, i commessi, delle torce come a Indiana Jones? delle candele per mandarli vaganti nella penombra dei corridoi parlamentari? degli accendini Bic? Così, tra il comico e il serio, tra cronaca dei giorni e lento scivolare nel classico di “Miseria e nobiltà” di Totò, ecco l’annuncio che al Senato gli eletti stellati “pagheranno di tasca loro il costo supplementare di elettricità e di aria condizionata”. Con relativo scontrino, va da sé, da far mostra col popolo web.
Aperto il Parlamento con l’apriscatole messo in bella vista e in primo piano il primo giorno di legislatura – “come una scatoletta di tonno”, fu la disposizione politico-culinaria –, nel fremito di acchiappare tutti i pizzini della casta, adesso il problema è fondamentalmente la forchetta: c’è il rischio di dover afferrare il trancio con le dita, immergendole nell’olio. Che macchia più dello Spirito – quello Santo e persino quello alcolico della vituperata buvette. Dove, con occhio di sfida, il supplì fissa il grillino per indurlo a peccare.
di Stefano Di Michele