Bunker sotterranei il mondo parallelo dei boss

La caccia nel sottosuolo. Viaggio nei rifugi della criminalità

organizzata, tra labirinti e stanze segrete

MATTIA FELTRI , La Stampa,ROMA

All’arte della fuga si contrappone l’arte della caccia, e se questa è sopraffina si deve affinare l’altra. Così oggi la mafia progetta e realizza bunker a scomparsa, a scorrimento, basati su impianti elettrici e idraulici, camuffati fra pozzi e fognature in una spettacolare fusione di tecnologia ed edilizia agreste, e lo fa perché presto o tardi gli inquirenti li scoveranno lo stesso. Ma più tardi sarà, più tempo si avrà di idearne di nuovi, ispirati dal genio del demonio. Non si sa quanti siano in Italia i bunker della criminalità organizzata. La mafia siciliana ne ha tutto sommato pochi, perché la guerra ai latitanti è cominciata venti anni fa, dopo Capaci, e non ci fu modo di organizzarsi. Ma quelli della ’ndrangheta e della camorra sono una quantità incommensurabile. Si parla di centinaia. Soltanto negli agrumeti di Rosarno sono una ventina. A Platì, regno ’ndranghetista di 3 mila e 700 abitanti in provincia di Reggio Calabria, ne esiste una mezza dozzina. In Calabria, dal 2005 a oggi, ne sono stati censiti sessantasei. In totale ben oltre un centinaio di bunker di cui è bucherellato il suolo e in cui si nascondono boss di vario cabotaggio: e sono quelli ora conosciuti. Più ci sono quelli ancora da scoprire.

 Martedì alle 21 su History Channel verrà trasmesso un documentario di novanta minuti (prodotto da Simona Ercolani, la creatrice di Sfide) e presto in onda sulla Bbc dal titolo Mafia Bunker - Caccia ai boss. Lo storico inglese John Dickie (autore di bestseller come Onorate Società e Cosa Nostra) si è infilato in una ventina abbondante di rifugi, accompagnato dai corpi speciali delle nostre polizie, per scoprirne e raccontarne i segreti. E si è imbattuto - come si imbatteranno i telespettatori - in una realtà parallela e prodigiosa. Platì, racconta Dickie, «è una città simmetrica, con un vita in superficie e una sottoterra, nella città groviera». Un sistema «pazzesco» con una «viabilità sommersa e strutturata, fatta di un’arteria principale che collega il bunker del boss a quelli degli affiliati e arterie secondarie che conducono ad altri rifugi e alle vie di fuga». Un mondo nuovo costruito a cielo aperto, nell’approvazione del paese e dei suoi amministratori. Dickie è entrato nel villaggio del sottosuolo attraverso il forno di una pizzeria, dall’ingresso medesimo delle pizze; ha infilato una botola, ha percorso una galleria di circa trenta metri e finalmente è sbucato in una stanza simile a quelle d’albergo, ben arredata, con rimasugli di cibo, specchi, quadri, un bagno da cui si apriva un’ulteriore apertura verso il resto dei cunicoli, uno dei quali sbocca in aperta campagna.

 Sempre a Platì, Dickie si è incuneato nel bunker di uno dei capibastone locali che si apre dalla scalinata d’ingresso: attraverso un interruttore nascosto, due scalini rientrano e offrono un piccolo passaggio sotto la villetta (sono ville, dice Dickie, regolarmente ispirate dall’abitazione di Al Pacino in Scarface); da lì si passa in uno sgabuzzino con una porta scorrevole che introduce al bunker vero e proprio, il quale garantisce sei diverse vie di fuga lungo il tragitto sotterraneo. «Il rifugio più incredibile che abbia mai visto è quello di Michele “Capastorta” Zagaria, il boss dei casalesi di Casapesenna», dice Dickie. Per agguantare Zagaria, si sono imbastite indagini lunghe due anni. Quando finalmente polizia e carabinieri sono entrati nella villa, ci hanno messo un po’ a capire il trucco: è una stanza intera a scorrere lungo il pavimento aprendo un varco di 70-80 centimetri; si scende e da sotto si vede il mirabolante meccanismo imperniato su binari. Poi si prosegue per qualche altra galleria, un piccolo labirinto fino alla solita stanza dove Capastorta si arrese. Da lì aveva comandato per anni la cosca grazie a un circuito interno, o meglio privato, diffuso in tutto il paese: i suoi uomini lo chiamavano dalle cabine telefoniche e lui rispondeva al videocitofono intanto che su tre monitor controllava le decine di telecamere disseminate lungo le vie. Vide arrivare gli sbirri, e sperò fino all’ultimo.

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