Perché la Cgil dovrà ammettere che la sua

politicizzazione non paga.

Se ne è parlato poco ma dal voto la Cgil esce con le ossa rotte. I suoi iscritti hanno infatti clamorosamente voltato le spalle al Pd e a Sel. Le stime devono ancora essere affinate, ma un dato è chiaro: un buon numero di operai e di lavoratori dipendenti questa volta ha preferito approdare sui lidi grillini. Susanna Camusso e Maurizio Landini hanno scosso l’albero della protesta sociale dura e pura, il movimento del comico genovese ne ha raccolto i frutti.

Oggi il gruppo dirigente della confederazione di Corso d’Italia si riunisce per analizzare il risultato elettorale. Vedremo se sceglierà di giocare di rimessa, attribuendone l’esito soprattutto alle politiche demoniache di Mario Monti, oppure se avrà la forza di aprire una coraggiosa riflessione critica su se stessa. E cioè su una macchina che si rivela sempre più burocratizzata e inefficiente, affetta da un ipertrofico centralismo, e dunque incapace di cogliere tempestivamente i cambiamenti profondi della società italiana. Il leader della Cgil dovrebbe ammettere con franchezza che il suo collateralismo con Pier Luigi Bersani non ha pagato.

Il leader della Fiom dovrebbe riconoscere che il suo collateralismo con Nichi Vendola (e con Antonio Ingroia) non ha parimenti pagato.

Qualcuno dovrebbe avere il fegato di dirlo: la passata campagna elettorale ha rappresentato una delle pagine meno fulgide per quella autonomia che è stata il vanto storico del sindacato di Giuseppe Di Vittorio, Luciano Lama e Bruno Trentin. Forse è giunto il momento che la Cgil si interroghi seriamente sulla necessità di cambiare un sistema di regole non scritte che premia la fedeltà e non la creatività, la stabiltà dell’organizzazione e non il rinnovamento. I partiti di riferimento di Camusso e Landini almeno si sono inventati le primarie, e con questa innovazione hanno fatto entrare un po’ di aria fresca in strutture atrofizzate.

Probabilmente anche il sindacalismo confederale avrebbe bisogno di inventarsi forme nuove di selezione dei suoi vertici, nel quadro di un più generale processo di democratizzazione (che riveda, ad esempio, la passiva sinecura costituita dal rinnovo automatico delle deleghe sindacali). Del resto, se i suoi tesserati aumentano, la sua rappresentanza cala. Una contraddizione che dura già da qualche anno. Fossi in Bersani, a questo punto, cercherei di giocare in proprio la partita con il mondo del lavoro, senza cercare l’inutile e perdente mediazione della Camusso.

Michele Magno, 20/3

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