Bloy il furioso e i “cristiani orribili”
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Il profeta ottocentesco di una fede romantica e assai poco razionale
“Chi non prega il Signore, prega il diavolo”, ha detto Papa Francesco nella sua prima omelia, citando lo scrittore francese Léon Bloy. Guai ai tiepidi, è come se dicesse il nuovo Pontefice, prendendo in prestito le parole taglienti di uno dei più controversi personaggi della scena letteraria europea tra Otto e Novecento. “Impresario di demolizioni”, si definiva Bloy, che fu portatore di un cristianesimo apocalittico e incendiario, nel quale trovò spesso spazio l’invettiva anticlericale e antipapista, oltre a un antisemitismo dai toni medievali. Un altro pianeta, insomma, se lo si confronta con la costellazione filosofica di Joseph Ratzinger, che nella sua ispirazione antirelativistica partiva da Agostino per incontrare Hans Urs von Balthasar, Romano Guardini, il post francofortese Jürgen Habermas. Campioni di quel pensiero che nell’alleanza tra fede e ragione (vale, in qualche forma, perfino per l’ateo Habermas) trova il proprio cardine.
Niente di più lontano da Léon Bloy. Il lupo solitario che invocava un cattolicesimo “dinamitardo” e che si era convertito, dopo una giovinezza ferocemente atea, perché convinto che esistesse un legame tra la sua nascita e l’apparizione della Vergine piangente a La Salette, il 19 settembre 1846 (“Sono nato nel 1846 [...] settanta giorni prima dell’Apparizione. Appartengo dunque a La Salette, in una maniera molto misteriosa”). Quello diventerà il suo luogo di pellegrinaggio e l’occasione per una serie di scritti, raccolti nel libro “Il miracolo di La Salette”, Medusa (vedi, sul Foglio del 7 luglio 2012, l’articolo di Marina Valensise). Bloy è capace di indossare, scrive Alessandro Zaccuri nella prefazione, “il saio dell’umiliato e la corazza del templare. Per invocare e inveire, per condannare e sottomettersi. Piaccia o non piaccia, l’Ottocento religioso francese si conclude nel segno di questa furia”. Bloy il furioso si sente investito del compito di testimone e “profeta dell’Assoluto” in un’epoca di “cristiani orribili”, che accusa di essere più amici di Pilato che di Gesù. E’ il demolitore radicale dell’illuminismo, lo spregiatore della modernità, il profeta della punizione incombente, il denigratore sdegnato del “Borghese”, protagonista del mondo scristianizzato e vincitore provvisorio nel mondo. Perché il Borghese non sa di essere in attesa di un Giudizio che sarà, inevitabilmente, di dannazione: peggio di san Tommaso, “la sua ammirevole superiorità consiste nel non credere, nemmeno dopo aver visto e toccato”. Al Borghese, Bloy dedica i tre volumi dell’“Esegesi dei luoghi comuni” (Piano B edizioni), così introdotta da una dedica all’amico René Martineau: “Di che si tratta, infatti, se non di strappare la lingua agli imbecilli, ai temibili e definitivi idioti di questo secolo, proprio come san Girolamo ridusse al silenzio i Pelagiani o Luciferiani del suo tempo? Ottenere finalmente il mutismo del Borghese, che sogno!”. Non c’è amore, in Bloy, se non per gli ultimi tra gli ultimi, e anche quell’amore è avvelenato dal fiele: “Lo confesso, non so starmene tranquillo. Se non riesco a distruggere, almeno voglio irritare. E’ il mio destino. Sono votato all’ingratitudine”.
Bloy il provocatore, l’amico delle prostitute, l’accattone, l’impresentabile, l’inascoltabile, lo scandaloso, il nemico del denaro che smonta tuttavia il luogo comune: “Il denaro non è tutto nella vita”. Di lui Ernst Jünger disse che “un mostro così forte ha bisogno di settant’anni per finire di fermentare”. Bloy morì nel 1917. Quasi cent’anni dopo, un frammento della sua fede furiosa è arrivato al mondo. Nel più imprevedibile dei modi. Il Foglio, 18/3