Oltre il Concilio
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Il gesuita Thomas Reese spara sull’intransigenza di Ratzinger e invoca un
“Papa diplomatico”
New York. Alcuni giorni dopo l’elevazione del cardinale Joseph Ratzinger al soglio pontificio, padre Thomas Reese ha dato le dimissioni dalla guida di America, il settimanale dei gesuiti americani. I due eventi erano correlati, anche se l’allora portavoce dei gesuiti a Roma, José de Vera, spiegava che le dimissioni di Reese non erano state “imposte” dalla gerarchia, contrariamente alle versioni che circolavano. Certo è che durante i sette anni di Reese alla guida di America il prefetto della congregazione per la Dottrina della fede, Ratzinger, aveva insistentemente segnalato al superiore generale dei gesuiti le posizioni eterodosse espresse dal settimanale sul celibato dei preti, il sacerdozio femminile, la ricerca sulle cellule staminali, il matrimonio gay e la comunione per i politici cattolici che sostengono l’aborto. La congregazione aveva anche minacciato di imporre al settimanale un consiglio che valutasse gli articoli prima della pubblicazione, cosa che non è avvenuta perché gli stessi gesuiti hanno istituito una commissione di controllo sull’operato di Reese. Senza risultati. “Reese voleva presentare tutte le posizioni all’interno della comunità cattolica. Ma questo non piaceva alle autorità vaticane”, aveva spiegato De Vera. Così, per non “creare ulteriori problemi” e non “imbarazzare il Papa” Reese ha lasciato la direzione del giornale. Ma da quel momento la sua voce pubblica invece di svanire si è rafforzata. Dopo un anno sabbatico, Reese è stato nominato professore al Woodstock Theological Center della Georgetown University, ha iniziato a scrivere di religione sul Washington Post ed è diventato uno degli intellettuali di riferimento del cattolicesimo liberal. Quando il suo “avversario” Benedetto XVI ha annunciato l’abdicazione, il sacerdote gesuita ha ricevuto in un solo giorno 130 richieste di intervista che gli hanno mandato in tilt la segreteria telefonica.
In una conversazione con il Foglio Reese non nasconde la speranza che le dimissioni del Pontefice possano aprire una nuova stagione nella chiesa. Una stagione dove la collegialità prevarrà sull’intolleranza teologica, e le voci dissonanti nella chiesa rispetto alla linea maggioritaria saranno ascoltate e non ridotte al silenzio, realizzando compiutamente il “piccolo passo avanti” fatto con il Concilio Vaticano II: “Giovanni Paolo II e Benedetto XVI – dice Reese – sono in un rapporto di perfetta continuità teologica e non hanno mai accettato di considerare idee e prospettive al di fuori della loro interpretazione. Quando sono stati eletti entrambi erano chiaramente gli ‘smartest guys in the room’: erano i più preparati, i più carismatici, i più autorevoli. Ma sono quelli che hanno impedito il dipanarsi di una riflessione teologica alternativa. Hanno soppresso qualunque discussione. Per questo spero che il prossimo Papa non sia l’intellettuale più preparato, ma quello che sa ascoltare e fare una sintesi di tutte le voci all’interno della chiesa. Servono diplomatici come Paolo VI e Giovanni XXIII, gli artisti del ‘consensus building’ che hanno fatto il Concilio, non professori”. La prospettiva di Reese chiama in causa il rapporto fra chiesa e secolarizzazione in un nomento in cui, specialmente in America, la parte liberal del cattolicesimo chiede che le dimissioni del conservatore Benedetto XVI siano l’occasione per un’apertura della chiesa al mondo. Per Reese il Papa non ha lasciato il soglio perché la chiesa è stata intimidita e resa debole dalle pressioni del laicismo militante (“anni fa avevo previsto che un Papa avrebbe lasciato l’incarico e non era una previsione difficile da fare: la medicina odierna ci permette di vivere a lungo anche in situazioni di estrema debolezza”) ma il gesto ha il retrogusto di un’ammissione: “Il cattolicesimo non è in grado di annunciare il Vangelo con un linguaggio comprensibile agli uomini del Ventunesimo secolo”.
Il passatismo della chiesa è l’ossessione di Reese: “Non possiamo continuare a ripetere vecchie formule incomprensibili. Agostino e Tommaso hanno usato il meglio della cultura che avevano a disposizione per spiegare il cristianesimo agli uomini del loro tempo. Hanno usato il neoplatonismo e l’aristotelismo, e in giro al momento io non vedo molti neoplatonici e aristotelici. Non possiamo soltanto citare i grandi teologi, dobbiamo imitarli”. Tutto questo, dice Reese, “senza cambiare i fondamentali della fede, ma adeguando il linguaggio, rendendoci comprensibili”, cosa che la staffetta pontificale Giovanni Paolo-Benedetto ha fatto soltanto a metà: “Hanno individuato il problema, ma non hanno trovato la soluzione, perché non hanno accettato di aprire un dialogo all’interno”. Quando si domanda il perché di questo rifiuto, il gesuita assume un tono profetico: “Il vescovo di Parigi bruciava i libri di Tommaso”. E’ assai più terragno, invece, quando si tratta di scrutare i rapporti di forza in vista del Conclave: “L’argomento a favore di un Papa da un paese in via di sviluppo mi sembra debole: il cristianesimo deve risolvere i suoi problemi qui, in occidente”. L’ipotesi di un americano è ancora più remota, per via della sconveniente “sovrapposizione fra il papato e una superpotenza”, ma anche per l’animosità che potrebbe generare nel terzo mondo e nei paesi arabi: “Direbbero che la Cia ha scelto il Papa e che Wall Street ha comprato i cardinali. Meglio un europeo dimesso che sappia ascoltare tutti”.
© - FOGLIO QUOTIDIANO di Mattia Ferraresi – @mattiaferraresi, 1/3