Bombe a Damasco. I ribelli contro Hezbollah

Decine di morti in quattro esplosioni. Sul confine libanese un’altra crisi. Beirut.

La capitale della Siria non è più “sicura”, anche se il regime impone agli abitanti di fare come se niente fosse. Ieri sono scoppiate quattro autobomba nel centro di Damasco, ma “i nostri capi ci costringono ad andare al lavoro e a portare i bambini a scuola come se nulla fosse”, racconta un’impiegata del ministero del Turismo raggiunta al telefono dal Foglio. Ieri ci sono stati almeno 50 morti e 300 feriti, tra cui anche molti bambini – le immagini trasmesse anche dalla tv siriana sono raccapriccianti, zainetti, grembiuli e corpicini accatastati – ma i numeri si sa che in questa crisi siriana non sono mai completi. Da giorni Damasco è diventata un bersaglio conquistabile: ieri è stato colpito il quartiere centrale e affollatissimo di al Mazraa, tra il checkpoint dell’ambasciata russa e una delle sedi delle partito del regime di Bashar el Assad, il Baath e anche il quartiere della vecchia stazione di Damasco. Ricostruendo la mappa degli attacchi, si dipana una linea che costeggia la zona ovest della città vecchia, il centro della medioborghesia che lavora in ambasciate, ministeri, scuole, caserme e uffici vari.

E’ difficile capire chi siano i responsabili. Gli attentati dinamitardi in Siria si possono dividere in due categorie: quelli su larga scala, devastanti, fatti da esperti, e quelli artigianali con bombe composte in casa, spesso bombole del gas radiocomandate con un telefonino. I professionisti del terrore sono presenti sia tra i sostenitori del regime di Assad, noto per eliminare gli avversari politici con le autobomba, che tra i ribelli dell’Esercito siriano libero, infiltrato da una galassia non facilmente identificabile di jihadisti islamici. Tra questi il gruppo più attivo è quello di Jabhat al Nusra, diecimila uomini disseminati ovunque. Due giorni fa l’Esercito libero era riuscito ad attaccare uno dei palazzi presidenziali e lo stadio di Damasco dove è rimasto ucciso un calciatore durante gli allenamenti. C’è poi la tempistica degli attentati: è in corso al Cairo un incontro dell’opposizione siriana per discutere le condizioni delle eventuali trattative con il regime e la formazione di un governo di transizione. Il possibile accordo di pace esclude il presidente in carica dal negoziato, mentre il capo della Syrian national coalition, Moaz al Khatib, punta a un dialogo col vicepresidente siriano Farouk al Sharaa per evitare che ogni generale alawita crei la sua milizia nel dopo Assad.

L’ultimatum e la “pulizia dell’area”

L’organo politico dell’opposizione sembra però sempre più distante da quello militare, su posizioni molto più estreme. Basti pensare alla dichiarazione di guerra contro Hezbollah (alleato del regime di Damasco) del capo dell’Els, Selim Idris. Il generale Idris ha detto di essere pronto a bombardare le postazioni di Hezbollah, nel Libano, se la milizia del leader sciita Hassan Nasrallah non dovesse cessare immediatamente di lanciare mortai in Siria. L’ultimatum sarebbe scaduto ieri, ma racconta di una guerra nella guerra che ha tutta l’aria di una trappola. Hezbollah sta cercando di trascinare i ribelli in un altro conflitto che finirebbe per coinvolgere anche il Libano, visto che il Partito di Dio ha conquistato otto città sul confine siro-libanese. Da quando Israele ha attaccato con un missile mirato, alla fine di gennaio, il convoglio di razzi che da Damasco andava a Beirut, la strada del trasferimento delle armi dalla Siria al Libano secondo Hezbollah “dovrebbe” spostarsi verso nord: dovrebbe passare per Qusair (vicino Homs) dove però c’è l’ultimo baluardo dei ribelli siriani a dieci km dal confine libanese. Due giorni fa qui sono stati uccisi tre uomini di Hezbollah. Il Partito di Dio vuole “ripulire l’area” per aprirsi una strada diretta che permetta gli scambi di armi.

Così mentre l’Economist mette di nuovo in copertina la crisi siriana con un’analisi inquietante sul paese che non c’è più (“The death of a country”), un conflitto diretto tra Hezbollah e i ribelli sembra quasi certo. Il Partito di Dio non può accettare l’ultimatum, e i ribelli non potranno lasciare impunite le prevedibili azioni di Hezbollah. La minaccia per la regione è evidente, anche se il neo segretario di stato americano, John Kerry, nel suo primo discorso non ha nemmeno citato la Siria: era troppo occupato a discettare di climate change. Il Foglio, 22/2

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