La pace valutaria non scoppierà sotto gli auspici di Putin
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Nella prima riunione del G20 sotto gli auspici della presidenza russa, i ministri
delle Finanze e i governatori delle Banche centrali si incontreranno a Mosca venerdì prossimo. Il gelo che accoglierà i partecipanti non si limiterà alle basse temperature dell’inverno moscovita ma investirà la natura stessa del foro che viene convocato e la rispettiva presidenza. Considerata un’economia emergente da molti paesi avanzati, a sua volta la Russia è vista come un paese avanzato da molte economie emergenti. Rispetto alla complessità di questo giovane consesso dell’economia mondiale, Mosca ha poche credenziali da far valere in ambito internazionalista che limitano in partenza l’intensità con cui le delegazioni ministeriali saranno disposte a confrontarsi in questo appuntamento inaugurale e, in quelli a seguire, di Washington in aprile e, ancora, Mosca in luglio, in preparazione del summit di settembre a San Pietroburgo.
Rispetto all’asse Washington-Pechino, che ha determinato la fortuna iniziale del G20 a livello di capi di stato e di governo all’apice della crisi e, successivamente, il suo indebolimento, Mosca ha poche leve che può attivare nell’una e nell’altra capitale. Se i rapporti bilaterali con la Cina non registrano particolari elementi di tensione, la Casa Bianca ha garbatamente rifiutato un invito dalla presidenza russa, notando che il presidente Barack Obama non prevede alcuna visita a Mosca prima del summit di settembre. A sua volta, Vladimir Putin aveva disertato il summit del G8 che proprio Obama aveva convocato a Camp David il maggio scorso. Né è d’aiuto l’agenda che i ministri e i banchieri centrali si troveranno di fronte venerdì. Nella sua recente valutazione sull’attuale stato dell’economia mondiale, il Fondo monetario internazionale ha previsto per l’Eurozona un secondo anno di fila di contrazione del pil, riflettendo il marcato rallentamento dell’economia tedesca e il persistente calo del reddito in Italia e Spagna. Negli Stati Uniti, la previsione di una crescita attorno al 2 per cento per il 2013 cela l’acuirsi dell’incertezza rispetto alla capacità dell’Amministrazione Obama di trovare un accordo di ampio respiro con il Congresso sulle scelte di politica fiscale nel medio termine.
Il quadro congiunturale si è caricato di ulteriori elementi di tensione nei giorni scorsi, quando le autorità giapponesi hanno segnalato di voler perseguire politiche monetarie particolarmente aggressive, determinando un significativo calo nelle quotazioni dello yen. Il deprezzamento della valuta nipponica, se sostenuto, si aggiunge a quello, già intervenuto, della valuta americana. L’effetto è di compromettere l’aggiustamento in corso delle economie dell’Eurozona rendendo il loro recupero di competitività sul fronte salariale assai più doloroso e inasprendone l’instabilità sociale. Il ricorso unilaterale a politiche di deprezzamento del cambio è, come ha sottolineato il presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi, “contrario allo spirito del G20”. Resta il fatto, però, che quando è messo in atto da paesi terzi rivela un significativo vuoto nell’architettura della moneta unica in cui non è prevista una politica del cambio per l’euro. Nell’ultima conferenza stampa, Draghi ha ribadito che la politica monetaria è perfettamente in grado di conseguire il suo obiettivo di stabilità dei prezzi pur in assenza del cambio come variabile di intervento. Ciò è corretto sul piano tecnico ma trascura gli effetti distributivi che l’assenza di una tale politica del cambio ha all’interno delle eterogenee economie dell’Eurozona, esponendo quelle più deboli a una intensificazione della concorrenza internazionale. In tale contesto, questa deficienza nell’architettura della moneta unica priva l’Eurozona di una leva importante da far valere, anche dal punto di vista tattico, nelle sedi internazionali competenti, mentre i costi di tale deficienza sono asimmetricamente distribuiti all’interno dell’area euro.
Se le tensioni sulle svalutazioni competitive di qualche paese rischiano di pesare nella prossima riunione del G20, occorre chiedersi quali margini di manovra ci sono, almeno in astratto, per replicare un coordinamento delle politiche economiche volto a rafforzare il debole quadro congiunturale dell’economia mondiale. La risposta è che, nelle attuali circostanze, semplicemente non ve ne sono. La recente crisi globale è stata innescata da vulnerabilità macrofinanziarie negli Stati Uniti che si stavano propagando alle altre economie sistemiche del G20. Un’azione coordinata era, pertanto, nell’interesse dell’intero gruppo. Oggi, invece, il clima di incertezza e il rallentamento che pesano sull’economia mondiale riflettono tensioni di diversa natura in quanto investono le fondamenta stesse del processo di politica economica negli Stati Uniti e nell’Eurozona. Nel primo caso, vi è la ricerca di un nuovo equilibrio tra presidenza e Congresso nella formulazione degli indirizzi di politica economica del paese. Nel secondo, si tratta di identificare un nuovo equilibrio fra dimensione nazionale e regionale nell’ambito di un percorso assai delicato e pieno di incognite che dovrebbe portare a privilegiare la seconda dimensione sulla prima, con l’unione bancaria e una maggiore integrazione fiscale e politica. In entrambi i casi, si tratta di ridefinire il processo istituzionale con cui si formulano le politiche economiche e ciò, per definizione, è l’espressione più intima della sovranità di un paese, dunque mal si presta a discussioni e valutazioni in fori internazionali allargati come il G20. di Domenico Lombardi, 13/2