Siamo fondati sul lavoro, ma non in che senso

La parola “lavoro” ha uno strano destino in questo paese. Sta o

addirittura troneggia nella Costituzione, e ne qualifica il carattere a partire dalla definizione di quel che è democrazia e Repubblica. Siamo gli unici al mondo. Nessun altro, a parte le esperienze argentine e peroniste, ha il “lavoro” in cima ai pensieri costituzionali e ai principi politici e civili. Le carte dei diritti e dei doveri del cittadino, che definiscono la forma dello stato e di governo, hanno fondamenta diverse e forse più solide in tutti i paesi di antica civiltà repubblicana, e anche nelle monarchie costituzionali di atavica democrazia rappresentativa (no taxation without representation): i diritti dell’uomo, con o senza il riferimento al Creatore come garante, l’eguaglianza, la fraternità, la libertà, l’indipendenza, la ricerca della felicità, la comunità eccetera, queste sono le basi del vivere repubblicano, non il “lavoro”. Il lavoro solo noi. Noi che abbiamo fatto la Costituzione in una fase ancora un po’ dubbiosa, quando la riga di Yalta era stata tirata e sembrava escluso che diventassimo una democrazia popolare come quelle egemonizzate nel dopoguerra dal sistema sociale sovietico, ma la linea divisoria tra mondo libero e no ancora non era stata legittimata da un voto popolare di guerra fredda e di appartenenza, il 1948 degasperiano che poi generò atlantismo ed europeismo, i due pilastri della democrazia, quella vera, non quella progressiva, toccata per fortuna in sorte all’Italia. Non ho niente contro la valorizzazione del “lavoro”. Penso che l’indice di occupazione (sperabilmente alto) e anche quello di disoccupazione (basso) siano indizi decisivi di salute della società; così il lavoro inteso come variabile sociale dominante, la cui abbondanza e le cui condizioni civili sono bisognose di garanzie e di diritti, indica la salute del sistema produttivo, segnala la propensione a investire per generare ricchezza. Va più che bene che un giornalone tribunizio come la Repubblica di Mauro e Zagrebelsky faccia ideologia lavorista a Torino, con un festival in cui le star sono giuristi militanti e sindacalisti Fiom e intellettuali pubblici della carovana Cgil, da un lato, e dall’altro l’imprenditore che più di ogni altro ha reso controverso il concetto di lavoro nel panorama della crisi industriale italiana e internazionale, Sergio Marchionne. Perché no? Viva il lavoro, facciamo festa il labour day, che da noi vuol dire la meravigliosa sagra della primavera del primo maggio e in America è il primo lunedì del mese, quando si festeggia il lavoro perché “si torna al lavoro” e il giorno dopo si va a scuola e la famiglia riprende il suo ritmo ordinario. Solo che a voler essere meno celebrativi, a voler essere veridici, se non veri, bisognerebbe scambiare di posto il capo della Fiat che vuole utilizzare come si deve gli impianti, e invece da noi fa di mestiere l’imputato, l’uomo nero, e il capo della Fiom, che di mestiere dovrebbe firmare contratti e rappresentare interessi di lavoratori, e invece si trascina di talk show in talk show, predica una politica industriale molto simile al Gosplan sovietico, affida gli interessi rappresentati alla magistratura del lavoro, e fa figura di cavaliere bianco e difensore dei deboli quando invece s’ingegna da promotore e lubrificatore di un vecchio apparato ideologico.

© - FOGLIO QUOTIDIANO 4,2

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