Un duello ad alta quota sull Nanga Parbat

Mai nessuno l’ha vinto d’inverno: valanghe e crepacci i pericoli

Sulla montagna più grande del mondo c’è un uomo solo a 6.000 metri che racconta con il suo computer di «aspettare sperando per il meglio». Ha nubi intorno che minacciano neve e scrive di una giornata di fatica per raggiungere la sua tenda, un incedere lento, complicato dalla neve che sprofonda sotto i suoi piedi. E dice di aver incontrato un «ibex», una sorta di ibrido tra camoscio e stambecco che si è avventurato fin lassù in quella landa desolata del Pakistan settentrionale. 

 L’ha preceduto nella sua tenda, ha assaggiato albicocche secche ma le ha sputate. «È un animale educato», scrive. La montagna è quella battezzata «nuda», il Nanga Parbat (8.125 metri), e l’uomo è l’alpinista francese Joel Wischnewski. Lui è solo, mentre è in atto una sfida non lanciata, neppure ipotizzata, tra due spedizioni leggere, quella polacca di Tomasz Mackiewicz e Marek Klonowski e quella italo-francese di Daniele Nardi e Elisabeth Revol, con il pakistano Alì.

Si contendono il primato di primi alpinisti a raggiungere la vetta del gigante durante l’inverno. Li dividono chilometri di rocce e ghiacci, sono sui due versanti opposti che entrambi portano la firma alpinistica dei fratelli Reinhold e Guenther Messner. I polacchi sono a campo 3 (6.600 metri) sulla parete Rupal, la più alta del mondo con i suoi 4.500 metri; Nardi, Revol e Alì sulla Diamir, 600 metri più corta. 

 Nel 1970 entrambe le pareti furono percorse per la prima volta dai fratelli Messner: la Rupal in salita, la Diamir in discesa, dove non molto lontano dagli alti pascoli Guenther venne travolto e sepolto da una valanga. I suoi resti emersero soltanto nel 2005. E sul Diamir, alcuni anni più tardi, Reinhold diventò il primo uomo a raggiungere la vetta di un Ottomila da solo. Un record che vorrebbe ritentare sulla Rupal il francese Joel, che appare però in difficoltà.

 C’è una quarta spedizione sul Nanga che ha le tende vicine a quelle di Nardi, ma sta per rinunciare: gli ungheresi Robert Klein e Zoltan Acs che fanno cordata con lo statunitense Ian Overton. Problemi di congelamento li costringono a rientrare più in basso, al primo villaggio. La sfida resta a due. Il tempo alterna neve a giornate di gran freddo e la montagna che in questa stagione nuda non è, lascia catturare alla gravità enormi valanghe. Nei giorni scorsi proprio Joel ne ha contate nove in poche ore negli orridi canali della Rupal. I polacchi lottano contro il freddo e devono badare a togliersi in fretta dai colatoi di slavine, Nardi e compagni sono in gran forma ma hanno testato le insidie dei ghiacciai del Diamir. La francese Elisabeth è stata inghiottita da un crepaccio ed è riuscita a frenare la caduta con una spaccata e piantando le punte dei ramponi sulle due gigantesche «labbra» della voragine. «E si è tirata fuori da sola», scrive l’alpinista di Sezze (Latina).

Tomasz Mackiewicz e Marek Klonowski stazionano in alto, al loro campo 3. Forzano la loro ascesa verso le fasce di roccia più in alto, mentre Daniele, Elisabeth e Alì sono rientrati al campo base per riprendere nuove energie. La «via» fino a quasi 6.500 metri è tracciata. Per poter trascorrere le notti (soprattutto d’inverno) alle alte quote occorre un acclimatamento ottimale e avere la certezza di non incorrere in una nevicata per almeno due giorni. 

La salita è ancora lunga, ma Nardi ha scelto lo sperone Mummery, quello che Messner salì in solitudine. L’alpinista italiano è ora a confronto con la storia dell’alpinismo: Alfred Mummery che osò affrontare il Nanga Parbat nel 1895 (morì travolto da una valanga) e Messner che segnò il confine del possibile risalendo il Diamir in solitaria. Fin dalla sua partenza, con estrema umiltà, ha messo in conto la rinuncia. Nel gennaio del 2012 il «re» delle invernali sugli Ottomila, Simone Moro, dovette abbandonare per il maltempo. ENRICO MARTINET

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