"La disperazione europea uccide la democrazia in Turchia". Interviste
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La censura dei media decisa da Erdogan raccontata dai giornalisti silenziati
di Eugenio Cau | 09 Marzo 2016 ore 11:03
Roma. Martedì sera la pagina web di Today’s Zaman, la versione in lingua inglese del quotidiano turco sequestrato la settimana scorsa dalla magistratura, era online e come sospesa a venerdì scorso, ancora testimoniava la preoccupazione per la notizia appena giunta del sequestro. Dopo che una nuova amministrazione imposta dal tribunale ha preso le redini del giornale, la sua versione turca, Zaman, dalunedì è passata da essere una delle ultime voci di opposizione a giulivo libello filogovernativo, ma online tutti i contenuti sono cristallizzati al quattro di marzo, o quasi, eccezion fatta per alcuni articoli particolarmente critici con il governo, che da ieri sono inaccessibili. Tra questi c’è la rubrica di Ihsan Yilmaz, professore di Scienza politica alla Fatih University di Istanbul e columnist fisso del giornale, su cui scrive dal giorno della sua fondazione. “E’ da anni che il governo cerca di fare di Zaman, l’ultimo vero quotidiano di opposizione, il suo megafono. L’ex direttore, mio caro amico fin dai tempi dell’Università, fu perfino mandato in prigione”, dice Yilmaz al Foglio. “La situazione oggi per i giornalisti è terribile. Sono costretti (‘forced’, dice Yilmaz, ndr) a scrivere news favorevoli al governo, e non possono lasciare per non essere buttati in mezzo a una strada”. E’ un meccanismo già verificato con tutti gli altri media messi sotto controllo dall’esecutivo, usando la leva giudiziaria o quella economica: “Quattro giornali e due canali televisivi tra gli altri”, dice Yilmaz. “In tutti i casi all’inizio sono stati licenziati solo i dirigenti, come è successo con Zaman. Poi si costringe i giornalisti a fare informazione addomesticata, e infine, quando la situazione si è stabilizzata, si licenzia anche loro. Con una doppia beffa: secondo la legge turca, se sei licenziato per ‘ragioni immorali’ non hai alcuna salvaguardia economica, sarà una punizione ulteriore”.
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La discesa verso l’autoritarismo del presidente turco Recep Tayyip Erdogan è vecchia di anni, ma si possono notare due punti di inflessione. Le proteste di piazza Taksim nel 2013 e la vittoria elettorale dello scorso novembre. “Da quel momento il trend (verso l’autoritarismo e la repressione della libera stampa) è accelerato molto rapidamente”, dice al Foglio Ilhan Tanir, analista turco e giornalista attualmente residente a Washington. “Anche media mainstream ed equidistanti come Hurriyet e Cnn Turk hanno iniziato a licenziare giornalisti che erano conosciuti come nemici del presidente e ad addolcire i toni con cui trattavano il governo. Zaman invece ha continuato nelle sue critiche, ed era solo questione di tempo prima che lo colpissero”. Lo stesso Tanir è stato vittima di un’epurazione: “Ho lavorato per Vatan, uno dei principali giornali della Turchia, fino al 2014. Poi, il giorno dopo la vittoria di Erdogan alle elezioni locali (il primo passo verso la sua scalata al potere presidenziale, ndr), un consigliere di Erdogan ha consegnato al giornale una lista di giornalisti che dovevano essere licenziati. C’era anche il mio nome, siamo stati cacciati perché eravamo critici verso il governo. Ho ricevuto attacchi, insulti, minacce di morte su internet. E questo è niente se confrontato con quello che succede a molti giornalisti in Turchia”.
A pochi giorni dal sequestro di Zaman, ieri le autorità turche hanno predisposto il commissariamento e la nomina di un amministratore fiduciario anche per l’agenzia di stampa indipendente Cihan. Entrambi i media, Zaman e Cihan, fanno parte del gruppo editoriale Feza Gazetecilik, vicino al gruppo di Fethullah Gülen, imam e imprenditore nemico giurato di Erdogan e definito “terrorista” dal governo. Davanti a queste violazioni ripetute della libertà di espressione, i leader occidentali alleati della Turchia abbozzano. Parlano con toni gravi della situazione, ma non condannano esplicitamente. “Ho chiesto io stesso al portavoce del dipartimento di stato americano, in conferenza stampa, se l’America intende condannare quanto successo con Zaman”, dice Tanir. “Mi ha risposto dicendo che la situazione è ‘preoccupante’, ma non c’è nessuna condanna ufficiale”. Anche i leader europei, radunati lunedì fino a tarda notte con il premier turco Ahmet Davutoglu per raggiungere un pre-accordo sulla crisi dei migranti, si sono ben guardati dall’usare toni forti. La crisi è così grave che l’Europa ormai è disperata di avere l’appoggio di Erdogan. “Abitualmente l’Europa ha un certo influsso sulla politica turca”, dice Yilmaz, “ma i leader europei sono stati schiavizzati da Erdogan a causa della crisi dei rifugiati”. Al vertice di lunedì nessuno dei leader (con l’eccezione del premier italiano Renzi) ha messo con forza sul tavolo negoziale la questione delle libertà civili in Turchia, e Davutoglu ha visto accettate tutte le sue richieste. E’ così che si concludono i deal nell’epoca della leadership debole: per disperazione, non per diplomazia. “La disperazione europea sta uccidendo la democrazia in Turchia”, ci dice Tanir. A questo Yilan ha dedicato la sua ultima column su Today’s Zaman. “La Turchia tornerà una democrazia?”, si chiedeva. Gliel’abbiamo richiesto. Ci risponde di no, convinto.
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