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L’Egitto e la Francia appoggiano un po’ troppo il generale Haftar e complicano i negoziati
di Daniele Raineri | 04 Marzo 2016 ore 20:46 Foglio
Roma. Dopo tanto ritardo l’inviato speciale delle Nazioni Unite, Martin Kobler, vuole bruciare le tappe, secondo il tam tam che sale dagli ambienti diplomatici: entro tre giorni il voto sulla formazione del governo di accordo nazionale in Libia, entro una settimana la cerimonia di giuramento a Tripoli e poi il passo più atteso dagli sponsor all’esterno: l’invito formale rivolto alla comunità internazionale per ricevere aiuto militare e sradicare dal paese lo Stato islamico, entro la fine del mese – e questo coinvolge in modo diretto l’Italia, che ha il comando della missione. Kobler intende recuperare il tempo perduto – la scadenza originale era a gennaio – anche nel timore che le operazioni delle forze speciali dei paesi occidentali in Libia, assieme alle fazioni locali, finiscano per svuotare di urgenza la necessità di formare un governo.
Roma è la capitale della diplomazia discreta che gira attorno alla Libia. Venerdì il comandante libico Salem Joha, vice del generale Khalifa Haftar, comandante dell’esercito di Tobruk, era con il suo staff nella capitale italiana. Joha ha partecipato ad alcuni incontri riservati in cui – probabilmente – è stata discussa la sua nomina a capo di stato maggiore nel futuro governo di unità nazionale a Tripoli (se mai sarà creato) oppure il comando di una forza che muoverà contro Sirte, capitale di fatto del gruppo estremista. A Roma c’era anche Ahmad Mitiig, un uomo d’affari di Misurata che per un breve momento fu eletto capo del governo a Tripoli.
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Joha è un personaggio atipico, con una consapevolezza acuta dello stato in cui versa l’esercito libico: “Una piramide rovesciata di colonnelli che pensano soltanto a dormire, a mangiare e a intascare lo stipendio, in nessun modo somigliante a una forza di combattimento”, disse alla New York Review of Book nel settembre 2013. Sono passati tre anni, la situazione nel frattempo è peggiorata con la scissione del paese. Joha fu un eroe dell’assedio di Misurata nel 2011 (Misurata sta con il governo di Tripoli) ma la sua fama in città è stata rovinata dal fatto che poi ha accettato il ruolo di attaché militare dell’ambasciata libica negli Emirati Arabi Uniti dal 2012. Tripoli detesta gli Emirati, perché hanno preso le parti di Tobruk – il New York Times ha scritto che jet degli Emirati hanno bombardato Tripoli nel 2014 – e anche a Misurata c’è odio, ci sono spesso sit in di protesta contro gli Emirati davanti al Consiglio municipale.
Due settimane fa a Roma c’era Abdel Hakim Belhadj, ex comandante del Gruppo islamista di combattimento (un tempo filo al Qaida) e oggi leader del partito al Watan a Tripoli, per accreditarsi presso il governo italiano come potenziale partner per combattere contro lo Stato islamico. “In questo momento, c’è una gara a diventare i ‘curdi di Libia’ – commenta l’analista Mattia Toaldo con il Foglio – vale a dire i partner affidabili dell’occidente nella lotta contro gli estremisti.
E’ da notare che la forza comandata da Behladj è allineata con la Turchia e con il Qatar, con cui il leader intrattiene rapporti non soltanto politici ma anche di affari. Se l’Italia accettasse la proposta ricevuta dall’ex capo islamista tramutato in politico, come reagirebbe l’Egitto, che è un altro partner coinvolto nelle operazioni in Libia e in contatto continuo con l’Italia – e però è in rapporti non buoni con Ankara?
“Anche la serie di raid contro lo Stato islamico che si sono susseguiti a Sabratha in questi giorni, fatti da diverse fazioni, in cui due ostaggi italiani sono stati uccisi e due sono stati liberati possono essere letti in questo contesto – dice ancora Toaldo – Prove generali per candidarsi come alleati, con tutto il ricasco di innegabili vantaggi che questo porta, dai finanziamenti alle forniture di armi”.
Tra queste fazioni che concorrono ci sono la Forza Rada”, che in arabo vuol dire deterrenza, ed è una milizia salafita che mantiene l’ordine a Tripoli comandata da Abdel Raouf Kara, un leader elusivo che segue un’applicazione rigida dell’islam; il Comando unificato di Sabratha, che ha cominciato a combattere contro lo Stato islamico dopo il bombardamento americano del 19 febbraio; Alba libica, che rappresenta il grosso delle milizie fedeli a Misurata.
Dall’altra parte del paese, a est, l’ostacolo più alto alla formazione del governo di accordo nazionale che sarà tentata da Kobler questa settimana è il generale Khalifa Haftar, o meglio il periodo di successi militari che sta attraversando. Le sue forze hanno infilato una serie di vittorie contro lo Stato islamico e altri battaglioni islamisti – ma distinti – nella lotta per riprendere il controllo della città di Bengasi, anche grazie all’appoggio delle forze speciali inviate dalla Francia e dell’Egitto. Parigi e il Cairo sono sponsor benevoli dell’uomo forte di Bengasi, e non si comprende – dal loro punto di vista – perché dovrebbero retrocedere. Haftar può garantire ai due alleati quello che vogliono, quindi influenza sulla Cirenaica per i francesi e una zona cuscinetto dentro la Libia a ridosso del confine con l’Egitto, per bloccare il traffico di elementi pericolosi. Proprio per convincere Haftar e l’Egitto ad allinearsi al piano più generale, quello sponsorizzato dalle Nazioni Unite (che però è più esile e suona poco convincente a molti libici) Kobler in questi giorni sta presenziando a una serie di incontri al Cairo – che è la seconda capitale della diplomazia libica, assieme a Roma.
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