Come siamo passati dall'esportazione della democrazia all'esportazione del modello cinese
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La tentazione di Pechino di diffondere alternative di governance e di sviluppo economico, secondo Fukuyamana. Il ruolo delle infrastrutture fisiche e finanziarie in una chiacchierata con Miracola, ricercatore italiano alla Peking University
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di Lorenzo Castellani | 10 Febbraio 2016 ore 10:12 Foglio
Francis Fukuyama è il teorico della vittoria globale della democrazia liberale dopo la caduta del muro di Berlino e l’analista politico più celebrato quando si investigano fenomeni come l’esportazione della democrazia stessa. Negli ultimi anni, però, il docente di Stanford si è concentrato principalmente sulla decadenza politica dei regimi occidentali e sulla riscossa dei modelli politici asiatici capaci di mescolare efficienza decisionale, meritocrazia e riforme economiche. A inizio anno, nel saggio "Exporting the chinese model?" scritto per Project Syndicate, il politologo esamina la strategia cinese nell’esportazione estera del proprio modello a colpi di finanza di Stato e infrastrutture che rende esplicita una filosofia contraria a quella delle democrazie occidentali alle prese con i problemi del welfare state e le difficoltà dei governi nel garantire a tutti un numero sempre crescente di diritti sociali.
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Il governo cinese ha avviato il progetto "One Belt, One Road", un ambizioso piano per realizzare una rete di infrastrutture da estendere ben oltre i confini della potenza asiatica fino a lambire i confine dell’Europa e che, secondo Fukuyama, rappresenta un passo significativo della volontà di affermazione del regime politico cinese. “La tesi di Fukuyama ha sicuramente un fondo di verità molto solido, ossia l’idea che la Cina stia cercando di sviluppare programmi economici e soprattutto infrastrutturali in Asia Centrale, sin fino all’Europa; il dominio del Grande Gioco, come spesso è stata definita quest’area, fa gola al dragone”, dice al Foglio Sergio Miracola, ricercatore dell’IMT di Lucca e della Peking University, “Tuttavia, ci sono due problemi di fondo con la tesi esposta da Fukuyama. Possiamo davvero parlare della presenza di un modello cinese alternativo a quello liberale sviluppato in Occidente? La risposta tende verso il no, almeno per il momento, dato che la Cina sta affrontando una delle sfide cruciali al proprio sviluppo economico: la così definita trappola del reddito medio, dalla quale si può uscire solo liberalizzando il mercato e adottando maggiori misure di privatizzazione.”
Inoltre, continua Miracola, “il secondo problema riguarda la 'One Belt, One Road'. Al momento questo disegno regionale molto ambizioso è solo scritto su carta, con qualche accordo siglato qua e là in giro per l’Asia Centrale e anche in Europa, ma senza prove tangibili di come la Cina voglia davvero costruire questa enorme rete infrastrutturale”. Inoltre, la tesi del docente americano non è universalmente accettata perché ad esempio “John Ikenberry, un altro celebre politologo, ha più volte ipotizzato che la Cina, per svilupparsi e diventare all’avanguardia, dovrà necessariamente “giocare” secondo le regole delineate dall’impalcatura istituzionale-finanziara messa in piedi dall’Occidente.” Ciò non toglie che le infrastrutture rappresentino uno dei pilastri della politica dello sviluppo cinese in quanto materia più facile da modellare rispetto ai più spinosi temi di politica interna legati alla costruzione del welfare state. Ad esempio, Miracola ricorda che “la Cina ha avviato la costruzione del CPEC (China-Pakistan Economic Corridor), ossia un corridoio che collega la Cina con il Pakistan. E tal progetto, vale la pena ricordare, risponde più chiaramente ad una logica geopolitica di contrasto alle presunte manovre di accerchiamento messe in atto dall’India nel Mar Indiano, dove la Cina nutre ambizioni economiche significative.” Le infrastrutture come driver geopolitico lasciano aperte molte domande tra cui quella relativa all’affermazione di un imperialismo cinese del terzo millennio su cui il ricercatore della Peking fornisce la sua previsione: “Se il governo di Pechino riuscirà a potenziare tale progetto al punto da renderlo un vero modello di crescita e sviluppo da contrapporre a quello occidentale, allora potrà essere esportato sicuramente. La creazione della Aiib (Asian Infrastructure and Investment Bank), per esempio, nata, appunto, per sollecitare la formazione di questo enorme progetto infrastrutturale, sta collezionato un numero crescente di adesioni anche tra paesi occidentali. Ciò perché la Cina promette interventi infrastrutturali e quindi di crescita che però non mettono in questione gli assetti istituzionali degli stati interessati, come l’incontro storico tra Xi Jinping e Cameron del novembre scorso, in cui la Cina ha promesso di costruire una nuova centrale nucleare inglese.” A questo livello l’attivismo geopolitico cinese non costituirebbe un problema così grave perché, conclude Miracola, “al netto di tutto, se di implicazioni strategiche dobbiamo parlare, almeno per quanto riguarda l’Occidente, queste potrebbero riguardare il progressivo spostamento verso Est da parte dei paesi occidentali, che potrebbero guardare alla Cina come un nuovo serbatoio di fondi dal quale poter ottenere le risorse finanziare per continuare a garantire lo sviluppo economico ed infrastrutturale ad un continente che invecchia velocemente e che dagli USA ha solo ereditato, nell’ultimo decennio, una crisi economica senza precedenti”.
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